BIZET LES PÊCHEURS DE PERLES
D. Damrau, M. Polenzani,
INTERPRETI M. Kwiecien Gianandrea Noseda
DIRETTORE
The Metropolitan
ORCHESTRA E CORO Opera
Penny Woolcock
REGIA
Erato 0190295893613 DVD 20,50
PREZZO
★★
Nella concisa scaletta della produzione operistica di Bizet nulla v’è che possa ambire a non si dice eguagliare ma neppure scalfire la dimensione fatale di Carmen. Eppure, è bastato quel titolo a garantire al compositore l’assunzione al rango degli eletti della musica francese; ed è ovvio allora chiedersi cosa avrebbe potuto ancora offrire al mondo quel solitario genio solo che il fato gli avesse concesso di vivere qualcosa in più di quei poveri trentasette anni entro cui si svolse la sua vita terrena. Carmen, insomma, si attesta quale unicum; e non sarà davvero quell’anteriore titolo che ha nome Les Pêcheurs de perles a rubarle la scena. E semmai qualche traccia della trama di passioni filtrate attraverso la finezza della scrittura che Carmen incarna la ritroveremo almeno in parte nel disincanto esotico e nei percorsi armonici inusuali di un’operina quasi ignota ai più come Djamileh, in cui dandismo e spleen scandiscono meglio che altrove il peculiare destino di questo autore di sovrana maestà linguistica. Pure, gli stessi Pêcheurs discendono dai lombi pregiati di quella orfèvrerie che risalterà al sommo splendore nel capolavoro; e solo la stupidità del soggetto, variante ennesima del tema della vergine sacra cui l’amore è interdetto pena la morte, ne sancirà il parziale esito. Ogni tanto comunque i teatri si rammentano del soggetto orientale di Bizet, forti dell’aura di incantamento tropicale della sua orchestra e della grazia d’eloquio di talune sue pagine a tutti note (i duetti Nadir-Zurga e Leïla-Nadir) e soprattutto di quell’aria “Je crois entendre” che ha fatto la fortuna di un esercito di tenori. Ultima in ordine di tempo questa rappresenta-
zione ripresa in “live” nel 2016 dal Met di New York, non davvero indimenticabile e tuttavia fornita di qualche solitario privilegio musicale. Privilegio è di sicuro la presenza di una protagonista femminile di alto rango quale Diana Damrau che dona alla sua Leïla movenze di canto accattivanti per languore e stile; mentre ai due compagni al maschile, il tenore Matthew Polenzani e il baritono Mariusz Kwiecien (Zurga), non rimane che difendersi: senza brillare di luce propria ma tutto sommato con pertinenza. Polenzani ha voce anonima ma sa piegare per virtù di emissione il non fascinoso timbro alle dovute morbidezze, Kwiecien apporta tratti di virile energia alla incolore figura di Zurga. E Noseda dirige i complessi newyorkesi con bastante sicurezza, forse tuttavia mancando di insistere il dovuto sulla levità della couleur locale che ne è invece il tratto di supremazia (alla prima del 1863 al Théâtre-Lyrique il critico Paul Scudo gridò inferocito “Wagner! Wagner! Wagner”, fornendo riprova che nulla al mondo eguaglia il potere della scemenza). Dove però lo spettacolo, si fa per dire, cola a picco è nella sua parte schiettamente teatrale: scene di bruttezza e insensatezza rare messe al servizio di una regia di Penny Woolcock che è la fiera dell’ovvio. Almeno il soggetto, per stupido che sia, avrebbe potuto ingenerare ben altro incanto. Ma come recita il vecchio detto, tutto non si può avere.