E Šostakovic pianse
La figlia Elena racconta l’addio alla Russia del violoncellista prima osannato poi dimenticato, fino alla riabilitazione con un discorso di Putin che lo rese felice
Elena Rostropovic, secondogenita del matrimonio durato mezzo secolo tra Mstislav e Galina Višnevskaja, oggi dirige una fondazione che porta il suo nome e si occupa del sostegno ai bambini del Medio Oriente e della Russia. Aveva sedici anni quando il 26 maggio 1974 dovette lasciare tutto, compresa una carriera da pianista prodigio, per seguire la famiglia nel forzato esilio paterno. “Quando mio padre - racconta - fu costretto a lasciare l’Unione Sovietica per aver scritto la famosa lettera di sostegno per Aleksandr Solženicyn, nessuno si fece avanti per difenderlo o per farlo desistere. Il mondo si divise in due: all’Ovest era acclamato per il suo coraggio, in Russia nessuno parlava più di lui. E sarebbe stato così per circa sedici anni”.
Nei quali persino le etichette sulle scatole delle sue registrazioni, conservate nell’archivio radiotelevisivo russo, venivano sistematicamente cancellate. Poi si scoprì che quell’escamotage era servito per preservare quel tesoro. Ci fu almeno il tempo per un addio agli amici più stretti?
“Il tempo era poco e il clima non consentiva troppi sentimentalismi. Mentre in America continuavano ad arrivare attestati di solidarietà, da Isaac Stern a Leonard Bernstein, in Russia il nostro nome cadde rapidamente in disgrazia. E nessuno osò replicare, ricordando ciò che mio padre aveva fin lì rappresentato per il paese. Una delle immagini più vivide è il rapido saluto d’addio tra Rostropovic e Šostakovic: Dmitrij piangeva, sapeva che non si sarebbero più rivisti. E del resto morì l’anno seguente”.
Ebbero anche il tempo di suonare qualcosa per l’ultima volta?
“Fu un addio veloce, nel suo appartamento. Ma non suonarono. Oltre che avere poco tempo, sarebbe stato troppo melodrammatico per il carattere di entrambi”.
Come reagì suo padre alla notizia della morte di Šostakovic?
“Era attesa, ma fu lo stesso uno shock. Era un fine settimana in cui a Tanglewood, dove da pochi anni aveva preso residenza Seji Ozawa, doveva dirigere la sua Quinta Sinfonia ed eseguire il Secondo Concerto per violoncello. Il 9 agosto, pochi minuti prima del concerto, mio padre ricevette una telefonata da Mosca. Salì sul palco all’intervallo e annunciò la notizia in un silenzio assoluto, commovente. Ci fu chi si chiese se il concerto sarebbe stato annullato. Mio padre non ne volle sapere e continuò, dedicandogli anche la Sarabanda di Bach”.
Che padre era, nella prospettiva di figlia e di musicista?
“Un uomo di valori eccezionali. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che fu un faro non solo per gli interpreti, ma soprattutto per i compositori. Il suo merito principale credo sia stato quello di aver incoraggiato a scrivere nuova musica per violoncello. Si contano centoquaranta composizioni dedicate espressamente a lui. Ma molte altre le ha ispirate col suo esempio. Il modo migliore per ricordarlo oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa, è continuare a scrivere musica per violoncello, come fecero Britten, Prokof’ev, Mjaskovskij, Dutilleux e una lista infinita di artisti. Senza contare altri di cui era amico, da Dalí a Chagall...”.
Come fu il ritorno in Russia, e soprattutto la festa degli ottant’anni al cospetto di Putin? Qualcuno gli chiese perdono per gli anni d’esilio?
“Quel giorno, in una festa bellissima, Putin pronunciò un magnifico discorso. Lo fece senza parole di circostanza, perché aveva già conosciuto mio padre anni prima, capendone la grandezza non solo per la Russia ma per il mondo intero. E credo che mio padre quel giorno sia stato sinceramente felice”.