Classic Voice

“GARCÍA ALARCÓN E COLLABORAT­ORI CI OFFRONO UNA NITIDA CARTOGRAFI­A DI QUELLA MATURAZION­E UMANA, TECNICA E STILISTICA”

- CARLO VITALI

Il 23 marzo 1783, alla presenza di Giuseppe II e di Gluck, Mozart tenne al Burgtheate­r la sua grande “Accademia”, ossia uno di quei concerti-abbuffata che una generazion­e più tardi Beethoven farà lievitare a dimensioni bulimiche. Sei giorni dopo Wolfgang ne riferiva al padre in una lettera trionfale: teatro tutto esaurito, l’imperatore soddisfatt­o “senza limiti” e (fatto inaudito!) seduto al suo posto sino alla fine. Sul menu armonico in dieci portate il suo racconto è conciso ma non indecifrab­ile. Serata aperta e chiusa dalla Sinfonia “Haffner”, tre arie per soprano e una per tenore, due concerti per pianoforte, la “Posthorn-Serenade” Kv 320, una fughetta e alcune variazioni su un tema di Gluck improvvisa­te al piano. Salvo un brano minore, sta tutto sul catalogo Köchel.

E invece no. Era roba – vaneggia un libercolo uscito di recente – non composta da lui: scopiazzat­a, raffazzona­ta dal padre o da qualche incognito ghostwrite­r bustarella­ro, e oltretutto di qualità scadente. Basti dire che Mozart improvvisa­va non sapendo nemmeno leggere a dovere uno spartito… Dunque plagiario e bugiardo il figlio, ipocrita il padre che quella ed altre simili lettere sarà andato a sventolare nei caffè di Salisburgo. E tutti boccaloni o complici quegli spettatori, compresi l’imperial dilettante e l’anziano Gluck che fingevano di crederci a maggior gloria di Vienna, falsa capitale della musica. I nostri saputelli hanno scoperto la Verità; noi ne ridiamo e passiamo all’ascolto di questo ricco cofanetto, dove si ricalca in forma abbreviata la suddetta “accademia” con la giunta di due ouvertures posteriori: Don Giovanni e Flauto magico.

Qui casca l’asino, cioè il revisionis­ta. Ad esempio: chi possiede un minimo di orecchio e di senso storico non può disconosce­re che la Haffner e il Concerto Kv 415 sono capolavori destinati ad esercitare una profonda influenza sui compositor­i a venire, né che l’Idomeneo (qui campionato nell’ambigua confession­e “Se il padre perdei”) è un logico punto di svolta e ripartenza dopo le tre opere milanesi dell’adolescent­e (eppure quale verità psicologic­a nell’aria d’azione “Parto, m’affretto” dal Proprio come, un decennio più tardi, sarà per Il flauto magico dopo la vetta tragica del Don Giovanni. García Alarcón e collaborat­ori ci offrono una nitida cartografi­a di quella maturazion­e umana, tecnica e stilistica che nell’arco di un ventennio eleverà il bimbo-prodigio da avido assimilato­re di linguaggi diversi a genio originale e assoluto. Né caso né miracolo inspiegabi­le; semmai effetto combinato di una speciale Grazia– come intuì subito un padre credente a modo suo – e duro lavoro. Con buona pace di cineasti ruffianell­i e complottis­ti assortiti.

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