Quel Leone di Jarrett
Il prossimo settembre la Biennale di Venezia consegnerà al musicista statunitense il suo massimo riconoscimento. A qualcuno è parsa una provocazione. A noi no
Un jazzista laureato nel tempio della contemporanea? Una provocazione o un riconoscimento dovuto? Nella motivazione con cui la Biennale di Venezia gli attribuisce il Leone d’oro si legge che “acclamato unanimemente come uno dei più importanti pianisti nel campo dell’improvvisazione e del jazz, Keith Jarrett è un artista che si è cimentato con straordinario talento e creatività in diversi generi musicali, tra i quali la musica classica, componendo partiture raffinate e graffianti al tempo stesso. La sua sterminata discografia è la testimonianza di un’arte senza confini e di una personalità unica nel campo del jazz, il cui approccio e la cifra stilistica così personali ne fanno un maestro universale della storia della musica”. Come non essere d’accordo? Innanzitutto il jazz è grande musica del Novecento e la sua storia si è intrecciata tante volte con il percorso dei giganti dell’arte europea del secolo scorso. E poi il profilo di Jarrett è unico. Pochi mesi fa su queste colonne Carlo Maria Cella lo tratteggiava - profeticamente - a partire dalla convinzione che “è un autore di musica contemporanea: il jazz non lo contiene tutto”. E già fra il ’67 e il ’76 il musicista iniziò a correre su due vie. “Una è quella afroamericana degli album Vortex, Atlantic e Impulse, in trio con Haden e Motian e in quartetto con Haden, Motian e Dewey Redman; l’altra”, continuava Cella, “è la via europea, che pure si presenta biforcuta: il Jarrett che debutta nel ‘71 sulla tedesca Ecm è già doppio”. Nello stesso ’76 con Hymns/Spheres Jarrett “scopre il fascino irresistibile dell’organo barocco nella chiesa benedettina di Ottobeuren e su un luminoso Karl Joseph Riepp (1710-1773) vola tra nuvole di suono che un jazzista nemmeno può immaginare”. Varie cose succedono negli anni a venire. Con una discografia che “diventa in cinquant’anni un grande ‘libro delle vie’ (titolo di un’altra sperimentazione sul suono, ma al clavicembalo, 1986) che impila 75 album classificati come jazz, e che sono anche il contrario del jazz, più 16 in cui Jarrett si trasforma in interprete ‘classico’, comunque non allineato perché parliamo di Arvo Pärt (Tabula rasa, 1983), di Barber e Bartók, del Clavicembalo ben temperato di Bach (primo libro al pianoforte, secondo libro al clavicembalo), di Lou Harrison, di Hovhaness, ancora di Bach (Variazioni Goldberg, Suites francesi, Sonate per viola da gamba e cembalo con Kim Kashkashian, di flauto dolce e cembalo con Michala Petri), di Handel (Sonate per flauto e cembalo, Suites per tastiera), di Mozart (Concerti per pianoforte K 467, 488 e 595), di Sostakovic (24 Preludi e fughe op. 87). Per concludere “nei suoi viaggi andata e ritorno da Bach a Miles, Jarrett ha versato gli elementi liberi dell’improvvisazione nella musica colta e la disciplina dei testi scritti nell’improvvisazione. Separare i tanti Jarrett che sono in Jarrett significa non aver capito niente, non solo di Jarrett, ma della contemporaneità tout court”.