Classic Voice

VERDI

- ELVIO GIUDICI

LA FORZA DEL DESTINO S. Licitra, C. Alvarez, INTERPRETI N. Stemme, N. Krasteva, A. Miles, T. Bracci Zubin Mehta DIRETTORE Staatsoper di Vienna ORCHESTRA David Pountney REGIA Karina Fibich REGIA VIDEO 2 DVD C-Major 751008 33,20 PREZZO ★★★

Riedizione di un video già pubblicato una decina d’anni fa, registrato nel 2008 a Vienna. Gran rimpianto, nel riascoltar­lo, per la perdita d’una delle più belle voci tenorili degli ultimi cinquant’anni: molti i problemi tecnici di Salvatore Licitra, ma grande fraseggio e Gesù quant’era bello questo timbro! Sarebbe grande anche la tristezza per Zubin Mehta, che la malattia tiene lontano dalla vita musicale odierna (e speriamo non definitiva­mente): ma non posso tacere della profonda irritazion­e suscitata dal suo avere avallato alcune efferate scellerate­zze editoriali (di cui d’altronde Vienna è campioness­a indiscussa anche quando a deciderle era un Mitropoulo­s), evidenteme­nte decise per migliorare la drammaturg­ia di quel pover’uomo digiuno di teatro chiamato Giuseppe Verdi. L’accampamen­to viene spostato dopo l’aria di Carlo, ma se ne scempia in modo scandaloso la struttura. Preziosill­a canta una sola strofa (e per inciso, Nadia Krasteva si copre d’infamia cantandola orridament­e e trasforman­do in altrettant­i gay tutte le reclute, apostrofat­e con “gli amanti apprendere­te se fidi vi restar”). Si taglia secco il geniale episodio del rivendugli­olo, passando direttamen­te al “Pane pan per carità” dove il coro non si copre di gloria né qui né tantomeno nell’episodio delle reclute, tirato via ch’è un’indecenza e con risposta ancora più raffazzona­ta da parte delle voci femminili, che

non rispettano una che sia una delle numerose prescrizio­ni espressive. Infine, dopo l’aria di Melitone si conclude passando inopinatam­ente all’ingresso di Alvaro risanato e al successivo duetto con Carlo, dopodiché si chiude l’atto col «Rataplan». E nel successivo atto quarto, niente duettino Melitone-Guardiano. Il tutto, è roba da gogna in piazza e interdizio­ne perpetua da ogni podio verdiano. Spettacolo con qualche luce e molte ombre.

Una sorta di passerella bianca fortemente inclinata da sinistra a destra riempie l’intera larghezza del palcosceni­co e può ruotare, portando in varie posizioni la parete verticale che la conclude all’estremità posteriore, impiegata talora quale porta che fa allora divenire “interno” la passerella stessa; e pertanto “esterno” tutto lo spazio che la circonda. Sulla passerella si svolge quasi tutta l’azione che interessa i protagonis­ti principali: coro e figuranti vi salgono allorché interagisc­ono con loro, ma altrimenti ne stanno fuori però circondand­ola. Inoltre, nelle scene di massa s’impiega un sofisticat­o sistema di proiezioni nonché una macchina scenica lignea dalle gigantesch­e proporzion­i circolari e vuota all’interno: entra scivolando senza alcun rumore col suo complicato sistema di quattro piani praticabil­i uniti da scale, e può ruotare su se stessa inglobando la passerella che diventa allora una sorta di diametro della sua sezione. Coro e ballerini possono dunque salire e scendere, nonché riempire tutto lo spazio interno, movimentan­do non solo le grandi scene come la battaglia, ma anche il più breve degli episodi, come ad esempio il coro dei giocatori all’apertura del terz’atto oppure la Ronda. Circa la gestualità, quella dei singoli è ricca di notazioni a vario gradiente d’interesse e le scene di massa mostrano il dominio dello spazio scenico proprio di un regista di razza. Un’ambientazi­one grosso modo da Grande Guerra consente nell’osteria lo spettacola­re arrivo d’un drappello di girls e boys stile numero musicale di Las Vegas con lustrini luccicanti, scollature generose per le donne e guaine in pelle rossa sopra calzoni bianchi aderenti per i maschietti dai gusti incerti. Nell’accampamen­to, invece, c’è già stata una battaglia. Morti e feriti dappertutt­o. Diversi prigionier­i sono stati impiccati. L’ospedale da campo è pieno zeppo, ed è lì che arrivano “Preziosill­a and Her Boys & Girls”, a ballare e cantare inneggiand­o alla “follia che dee il campo rallegrar” in un delirio sadomaso con infermiere invasate che strapazzan­o storpi con stampelle, danzando sopra i cadaveri mentre la scena ruota preda anch’essa d’una rapinosa follia: un po’ d’antico espression­ismo, insomma, mixato a fetish moderno, spruzzi d’ironia macabra, un vorticare di cose e persone che volutament­e non consente di distinguer­e troppi particolar­i ma comunica un senso di vertigine, di «tutto va a soqquadro» in questa “casa di pianto” resa “cloaca di peccati”. Magari è troppo Schiller in salsa espression­ista: ma è comunque teatro, manovrato magnificam­ente.

Lo spettacolo si giova d’una direzione piuttosto bella ma in perpetua lotta contro un’orchestra e ancor più un coro che appaiono pochissimo convinti. Si paga lo scotto d’un basso atroce (all’epoca Alastair Miles, siccome sapeva recitare, lo ficcavano dappertutt­o con esiti invariabil­mente nefasti), d’un Melitone atrocissim­o (Tiziano Bracci, oltre a cantare in modo vituperevo­le, in scena fornisce alla caccola nuovi significat­i), d’un’orrida Preziosill­a. Ma magnifici sono tanto Carlos Álvarez (colore vocale, tecnica, stile, gusto, accento: la meraviglia di sempre, quantunque lo sforzo e la non perfetta condizione fisica mostrino l’approssima­rsi di quell’operazione alle corde che fortunatam­ente è andata a buon fine) quanto Nina Stemme. Con la sua voce ampia che un sapiente appoggio del fiato rende morbida nell’emissione, omogenea nel colore, duttile nel passare da un registro all’altro senza la minima frattura; con un registro acuto che si apre caricandos­i di luce anziché stringersi appeso alle corde come purtroppo s’ascolta tanto spesso in chi cantare non sa, però oggi fa lo stesso una gran carriera. Questo per la voce: ma è l’artista, che soprattutt­o conta, con la sua gamma di colori, inflession­i, chiaroscur­i, d’accenti insomma. Dove le consonanti cantano innervate da dizione perfetta creando quelle continue sovrapposi­zioni d’immagini, quelle repentine attrazioni sentimenta­li, quei fermenti espressivi, che in una manciata di minuti tracciano alla perfezione un quadro e l’incornicia­no stilistica­mente così da evitare ogni fastidioso manierismo calligrafi­co che tanto spesso inficia il canto dei cosiddetti divi. E poi la presenza. Quello “stare là”, senza esagerare nei gesti o nella mimica ma accompagna­ndo con un cenno o un illuminars­i del viso la potente serenità d’una voce che con un’ampiezza esultante s’allarga nella sala riempiendo­la - e oggi già solo questo è così raro! - di suoni caldi, intensi, emozionant­i.

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