HANDEL ARMINIO
Armonia Atenea ENSEMBLE George Petrou DIRETTORE Max Emanuel Cencic REGIA 2 DVD Unitel 744408 Cmajor d. d. PREZZO ★★★
Un solo momento di vero teatro. Nella scena finale, quando i personaggi si collocano in faccia le maschere che reggono in mano. È il coro che chiude l’opera. Coro di un’opera seria barocca: cioè cantato dai personaggi principali che così chiudono l’azione. Perché, sebbene appaia contrario alla percezione dello spettatore moderno, era questa la musica dell’azione: la morale che chiude la favola. “A capir tante dolcezze / Troppo angusto è il nostro cor”. Arminio, opera andata in scena a Londra nel 1737, racconta la sconfitta che precluse per sempre ai Romani il dominio delle terre tedesche. Avvenne nel 9 d. C., nella foresta di Teutoburgo e la legione di Varo fu sterminata. Quando l’opera andò in scena a Londra, al Covent Garden, l’Europa usciva da guerre sanguinosissime: quella di successione spagnola, la grande guerra del nord, e Handel, naturalizzato cittadino inglese, ma nato Sassone, questa storia di un condottiero germanico che arresta l’avanzata dei Romani doveva considerarla con occhio molto benevolo. Il libretto è un pasticcio che con la storia ci va a nozze come i gatti
con i cani. L’autore non lo si conosce, ma il modello è preso da un libretto del toscano Antonio Salvi per Alessandro Scarlatti. Ma Handel - che ormai, nel 1737, si firma George Frideric Handel - con senso teatrale infallibile, coglie il lato patetico e patriottico della coppia germanica: Arminio e Tusnelda sono veri e propri personaggi, con recitativi efficaci ed arie bellissime. L’interpretazione musicale ha ottenuto larghi consensi. Io andrei più cauto. Manca la caratterizzazione dei personaggi – salvo lo splendido Arminio di Max Emanuel Cencic e la commovente Tusnelda di Lauren Snouffer. Probabile che fuorviante sia la regia, dello stesso Max Emanuel Cencic. Niente di che avere fatto indossare costumi del primo Settecento, ma imperdonabile che poi gli abiti inducano i cantanti a una recitazione leziosa, quasi isterica. Incomprensibili i recitativi. Per fortuna brevi. La scena del padre che fustiga e minaccia il figlio sembra una parodia di una recita di filodrammatici gay. Il teatro moderno non è questo. Si poteva mettere in scena l’opera addirittura in abiti moderni, ma far recitare le parti come vere parti di teatro. O lasciare gli abiti settecenteschi, ma allora prendere a modello ben altro Settecento, per restare in terra handeliana: Hogarth. Negli ultimi anni Handel indulge anche a effetti comici, per esempio nel Serse, ma non in quest’opera, nella quale se mai sono messi quasi sempre in evidenza climi cupi e dolorosi. Disturbano anche certi effetti realistici, gridolini, rumori di scena. Sembra quasi che la musica piaccia agli interpreti ma non la vicenda teatrale per la quale è stata scritta. Da qui un senso di divaricazione tra ciò che si vede e ciò che si sente. L’effetto finale delle maschere avrebbe potuto essere adottato fin dall’inizio e forse lo spettacolo avrebbe prodotto un altro impatto, di estraniazione, di teatro nel teatro. Ma anche ciò che si sente è spesso quasi una parodia del canto barocco. George Petrou tiene insieme l’Armonia Atenea e i cantanti sulla scena. Ma presta scarsa attenzione alla rappresentazione differenziata degli affetti che via via i personaggi ci comunicano. Il risultato è un tono uguale, monocorde, per tutta la durata dell’opera. Handel, su quelle tavole, tra quegli strumenti, sembra il grande assente di tutta la messa in scena. Ciò detto, si deve riconoscere, almeno, che fuori dall’Italia, Handel è frequentemente rappresentato. Da noi resta invece alla lettera, per davvero, il grande assente. Da tutti i teatri. Con pochissime eccezioni.