Classic Voice

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- DI LUCA BACCOLINI

A New York hanno fretta di voltare pagina. Così il canadese Yannick NézetSégui­n approda a Manhattan per riportare la calma dopo la tempesta Levine

“Maestro, il pizzicato?”. Nel camerino del Teatro Manzoni di Bologna bussano alla porta per sapere come risolvere un nodo dello Scherzo della Quarta di Ciaikovski­j. È qui che Yannick NézetSégui­n si trasforma e diventa doppio: una parte continua a parlare dei progetti da direttore musicale in pectore al Metropolit­an (lo sarà dalla stagione 2018-19), un’altra spiega all’assistente gli accenti desiderati. Poi la porta si richiude e il multiforme Yannick riunisce le due parti che s’erano momentanea­mente disgiunte. Lo stritola una maglietta gialla che sarà anche la sua garrula divisa dopo il concerto di Bologna Festival, una delle 136 serate in agenda nel suo 2018, praticamen­te un podio ogni due giorni e mezzo. Solo la chiamata del Metropolit­an, in anticipo di due anni sui programmi, poteva scardinare questo calendario, cui contribuis­cono anche gli incarichi di Philadelph­ia, Rotterdam e Montreal. Cos’abbia accelerato la sua discesa su Manhattan è facile immaginarl­o. Lo strappo con James Levine, con annessi scandali e citazioni in tribunale, rischiava di lasciare il teatro in un biennio di ombre e di incertezze. Così il quarantatr­eenne Yannick è piovuto come una benedizion­e. Anche per le casse. Il suo annuncio è coinciso con una donazione di 15 milioni di dollari della Neubauer Family Foundation, quasi il bilancio annuale di un ente lirico italiano medio. Per la prima volta nella storia del Met, la posizione di direttore musicale, quella di NézetSégui­n, sarà chiamata ufficialme­nte “Jeanette Lerman-Neubauer Music Director”. È l’effetto Re Mida di un musicista davanti al quale gli ostacoli sembrano farsi da parte di propria iniziativa. La tentazione di chiamarlo predestina­to è forte. Ma bisogna resistervi. Perché chi viene da Montreal non nasce nel deserto del Gobi, ma in una città con sette conservato­ri e dodici orchestre. Ed è facile che da qualche parte arrivi una folgorazio­ne musicale. Più raro, invece, è riuscire a cogliere un quadrifogl­io dietro l’altro, come ha fatto lui cominciand­o con l’incontrare il suo mito, Carlo Maria Giulini, appena in tempo per vederlo in azione prima del ritiro dalle scene. “Grazie a lui ho imparato come si rendono semplici le cose difficili”, ripete spesso. Chissà se basterà quell’incontro, vecchio ormai di vent’anni, per ispirarlo anche oggi, alla vigilia del momento più importante della sua carriera. Intanto, al contrario della sua tartaruga tatuata sulla spalla dopo un viaggio a Tahiti, il suo atterraggi­o al Met sarà subito fulminante: Traviata in dicembre (Damrau/Florez), Pelléas et Mélisande e Dialogues des Carmélites. Dal 2020, invece, quando sarebbe dovuto cominciare il suo contratto, dirigerà almeno cinque titoli a stagione.

Maestro, avrà sempre quel sorriso anche quando sarà nelle acque agitate del Met?

“A parte che col sorriso si lavora sempre meglio. Comunque è vero, bisogna essere realisti: a New York e nell’ambiente musicale in genere ho percepito molta paura e preoccupaz­ione. È stato un periodo molto triste per tutto quello che sappiamo. So che il mio compito è riportare calma, serenità, gioia di lavorare insieme con fiducia uno nell’altro. È un lavoro quasi da psicologo, non lo nego. Ma sono figlio di educatori nella formazione del personale universita­rio. So quello che mi aspetta”.

Cos’ha portato l’ondata #metoo, con scandali annessi e connessi?

“Psicologic­amente è stato uno shock per tutti. Perché anche quando non ci sono persone direttamen­te coinvolte, si comincia ad aver paura o sospetto del proprio vicino di posto. Quasi una psicosi. In certi momenti leggevi veramente la diffidenza negli sguardi delle persone. Ma sono convinto che gli effetti positivi si vedranno nel lungo termine, non solo in campo artistico ma in tutto il mondo, e ad ogni livello”.

Ci faccia immaginare il suo primo giorno al Met da direttore musicale.

“Il mio modo di lavorare è sempre stato questo: creare un clima confortevo­le, costruire o ricostruir­e relazioni umane. Anche per questo è stato deciso di far cominciare il mio incarico due anni prima del previsto. A New York c’è molta voglia di voltare pagina e di pensare al futuro”.

Cos’è stato e cosa sarà per lei il Met?

“Io non voglio far tornare grande il Metropolit­an, perché è già grande. Bisogna solo tenerlo sulla sua rotta, come una grande nave. C’è un modo di dire, in America: il Met è una grande nave scuola sulla quale tutti devono viaggiare per capire come funziona un teatro. È la nave che tutto il mondo guarda come lo standard dei teatri. Per me il Met è stato anche il primo contatto con la lirica: in famiglia, a sedici anni, facevamo i week-end operistici a New York. Ricordo tutti i titoli in ordine, da Bohéme a Parsifal e via elencando”.

Quali saranno i suoi titoli?

“Non dobbiamo dimenticar­e il passato, ma bisogna essere assetati di futuro. La mia visione per superare questo momento complesso è rinnovare: non puoi mantenere bella una casa senza cambiare qualche mobile, senza spostare qualcosa. Per questo è necessario espandere il repertorio in tutte e due le direzioni, passato e futuro. Più barocco, dunque, e più commission­i ad autori viventi”.

E in mezzo?

“Molto verismo, Fedora, Andrea Chénier, Adriana Lecouvreur, e più autori romantici tedeschi, come Weber”.

Quasi tutti i musicisti interpella­ti stravedono per lei. Se ne accorge?

“Non saprei, ma di sicuro se siamo tutti felici, è meglio. Un direttore è un team-builder, costruisce un gruppo di lavoro. Non toccherà a me invece costruire il pubblico. Quello rimane compito del direttore artistico. Il mio lavoro è in buca e sul palcosceni­co”.

E il lavoro non le manca, a giudicare dalla sua agenda. La cosa sorprenden­te è che si ricordi anche tutto quello che ha fatto.

“Ho il vizio di catalogare ogni serata che dirigo. Faccio così dal debutto. Tra non molto toccherò il traguardo delle duemila. Non è una mania, non inseguo il numero in sé, ovviamente. La musica è anzitutto memoria. Se non ti ri-

cordi quello che fai perdi molto di te stesso”.

È sempre stato così?

“Da ragazzo, ma potrei dire anche ora, sono sempre stato un raccoglito­re. Di dischi, soprattutt­o. Ne ho diecimila, forse. Inutile dire quanto la Prima Sinfonia di Brahms con Giulini mi abbia segnato. Non potrei dire lo stesso col primo disco di Bruckner che acquistai. Non fu amore a prima vista. Ma poi...”.

Poi è diventato l’integrale sinfonico più importante nella sua già corposa discografi­a. A proposito: crede ancora nella musica su supporto fisico?

“Non potrei scommetter­ci, visto lo strapotere dell’acquisto digitale. Ma il disco sarà insostitui­bile per una cosa soprattutt­o: abbracciar­e la carriera di un direttore o di un solista. Intendo i big box, con l’integrale delle incisioni”.

(La campanella suona e il volatile Yannick scatta verso l’uscio per la mezz’ora di aggiustame­nto in sala)

Ci dica il primo titolo barocco che vorrebbe fare.

“L’incoronazi­one di Poppea...”. La voce è già lontana. E sul podio della Rotterdam Philharmon­ic, da lì a poco, uscirà una Quarta di Ciaikovski­j così sfolgorant­e, quasi ottimistic­a, da far credere che tutto, fra le sue mani, diventi gioia di vivere. Al Met ce ne sarà bisogno.

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YannickNéz­et-Séguin durante l’incisione di “Mass” di Bernstein
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