Classic Voice

FOYER

- Alberto Mattioli

Ah, queste opere “moderne”. Su Facebook infuria furibonda ma purtroppo non fuori onda la polemica su un tizio che scrive che per l’Opera di Roma mettere in scena il Billy Budd di Britten è un inutile spreco di denaro, dato che, riassumo il delirio, si tratta di un titolo astruso che non interessa nessuno tranne quei soliti quattro snob (per inciso, abbiamo sempre saputo di essere circondati dai cretini: grazie ai social, adesso sappiamo pure come si chiamano).

Passando però dalle stalle alle stelle, cinque per la precisione, si legge sull’edizione torinese di “Repubblica” l’intervista a un sedicente “esperto” del Movimento che dà la linea al Regio, appena prima del perfetto colpo di mano partitocra­tico che ne ha cambiato la dirigenza: basta opere “di nicchia”, intendendo come tali probabilme­nte tutte quelle che non ha mai sentito nominare, e ovviamente basta anche a produzioni innovative, che poi il popolo non capisce. E infatti pare che dal cartellone già preparato da quelli dell’ancien régime siano scomparsi sia il Wozzeck (Berg, chi? E in tedesco, poi!) sia l’inaugurale Siberia di Giordano, e qui ci sarebbe davvero da riflettere su corsi e ricorsi storici se pensiamo come il Verismo, già biasimato perché troppo popolare e basico, oggi risulti élitario e difficile, anzi “di nicchia”, come dicono costoro. E poi: meno titoli, meno nuove produzioni e più repliche, all’infinito, dei soliti noti del repertorio. Come idea di teatro, una via di mezzo fra la povera zia che oltre Bohème proprio non va e il repertorio alla tedesca, dove però, forse bisogna spiegarlo agli insoliti ignoti che oggi danno le linee culturali, non è che facciano sempre e solo quei quattro titoli (straordina­ria poi, nella stessa esilarante intervista, l’annuncio dell’istituzion­e di una compagnia stabile di cantanti come si farebbe nei teatri anglosasso­ni - ah, sì, quali? - che in effetti però si potrebbe fare, con cartelloni di soli Verdi e Puccini...).

“Ohilà, sveglia: il Wozzeck ha quasi un secolo, Janácek è morto nel ‘28, novant’anni fa, il Billy Budd risale al ‘51”

Non divaghiamo. L’oggetto della rubrichett­a sono le opere “moderne”, che risultereb­bero difficili per il melomane medio. Quando però si va a vedere quali, si scopre che nell’aborrita categoria rientrano titoli vecchi di decenni, del tutto storicizza­ti, presenti con regolarità nelle stagioni di tutti i teatri del mondo, compresi quelli della provincia più remota. Ohilà, sveglia: il Wozzeck ha quasi un secolo, Janácek è morto nel ‘28, novent’anni fa, il Billy Budd risale al ‘51. Si parla di capolavori ampiamente metabolizz­ati, completame­nte digeriti, assolutame­nte d’uso corrente (e dire che all’ultima ripresa del Midsummer alla Scala, qualche anno fa, un illustre collega obiettò semmai che Britten risultava, qui e altrove, eccessivam­ente conservato­re).

Non solo, e questo mi sembra l’argomento dirimente, se proprio lo scopo di chi gestisce i teatri debba essere sempre e solo quello di riempirli il più possibile, ecco lo scoop: il pubblico, alle opere del Novecento, ci va. Certo meno che a Traviata o al Barbiere, ma ci va. Basta farle bene. Come ha dimostrato, per tornare al punto di partenza e smentire clamorosam­ente tutto questo cicaleccio di gente che non sa nulla ma ne parla, proprio il Britten romano. Quando si è sparsa la voce che si trattava di una produzione stupenda di un’opera stupenda, e il passaparol­a è ancora il marketing che funziona meglio, il teatro si è riempito, fino alle ultime recite, mi riferiscon­o, stracolme. Una “nicchia”, diciamo così, molto ampia. Dimostrazi­one, fra l’altro, che la cosiddetta “gente” capisce la qualità molto meglio di chi vuole abbassarla per venirle incontro. Sono proprio i populisti a disprezzar­e quel popolo di cui dicono, mentendo, di interpreta­re la volontà, in realtà per servirsene invece di servirlo. Solo che bisogna usare bene le parole. Non si chiama populismo, si chiama demagogia.

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