VERDI I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA
INTERPRETI A. Meade, A. Esposito, F. Meli, G. Gipali, A. Di Matteo, A. Zabala, L. Bini
DIRETTORE Michele Mariotti
ORCHESTRA teatro Regio
REGIA Stefano Mazzonis di Pralafera
TEATRO Regio
★★★
“Innanzitutto la trionfatrice della serata, Angela Meade, accolta alla fine da boati quali non si sentivano da tempo: e sacrosanti. Voce molto estesa e di ampio spessore, dal bellissimo colore. Capace tanto di eterei pianissimi quanto di vibranti sciabolate acute senza che in alcuno di essi vengano meno morbidezza, omogeneità, luminosità”
Raramente, negli ultimi anni, è capitato d’assistere in teatro a simile discrasia
tra quanto si vede e quanto s’ascolta.
Quello (che proviene da Liegi, montato per una Jérusalem), una recita che nemmeno all’oratorio di Scurcola Marsicana negli anni Cinquanta. Teloni dipinti pacchianamente malissimo; costumi d’un orripilante kitsch damascato comprensivo di copricapi femminili tipo astrolabio; gestualità in perfetto stile parodia lirica ma beninteso non alla fratelli Marx bensì dovuto a patetica impotenza mista a idee del tipo scena di un harem con le odalische – sempre in damascato – che giocano a palla, momento di puro teatro demenziale.
Questo, al contrario, attestato su uno dei vertici maggiori raggiunti dal teatro verdiano contemporaneo. A cominciare dalla direzione. Orchestra di strepitosa varietà dinamica, che alle pagine pervase di quell’alta oratoria di pretto stampo manzoniano (vabbè, il Manzoni di serie B delle Odi scaduto a manzonismo di quarta categoria nei brutti e retorici versi del Solera retorica è cosa diversissima dall’oratoria - ma insomma pur sempre un’ombra manzoniana) conferisce ampiezza e aulicità raggiunte mai pompando meccanici decibel bensì attraverso una formidabile compattezza del suono, cui è sempre mantenuta quella morbida, possente montata melodica che è cosa inequivocabilmente verdiana e che Verdi amava definire apponendo in partitura la prescrizione “Grandioso”. Come verdianissimo è il serrare archi di estrema tensione, mai un momento di stasi, sempre un’impeccabile logica teatrale a dipanare il fluire narrativo, guidando e sorreggendo il canto nel migliore dei modi, ovvero cantando sempre e sempre rapportandosi alle voci in palcoscenico.
Voci che compongono un cast destinato ad essere ricordato. Innanzitutto la trionfatrice della serata, Angela Meade, accolta alla fine da boati quali non si sentivano da tempo: e sacrosanti. Voce molto estesa e di ampio spessore, dal bellissimo colore. Capace tanto di eterei pianissimi quanto di vibranti sciabolate acute senza che in alcuno di essi vengano meno morbidezza, omogeneità, luminosità grazie a una linea tutta su di un fiato poggiato e proiettato con tecnica eccellente, governato da musicalità strumentale, e illuminato dall’interno da un fraseggio che – complice una dizione perfetta – inanella accenti sempre vari e appropriati. Una preghiera iniziale tutta sul soffio di mezzevoci solide e timbrate, che sale a una regione acuta i cui piani e pianissimi mai hanno neppur l’ombra d’un falsetto ma si mantengono tersi, iridescenti, morbidi e timbrati ch’è una meraviglia. La già pestifera “Se vano è il pregare” è stata un portento di legato solido e fluido, ma nell’infernale cabalettona che segue, per una volta non mi si è parata alla memoria la grandiosa Renata Scotto delle celebri recite romane del ’69: su di un’orchestra dal ritmo elettrizzante ma sempre soffice e avvolgente, la voce della Meade s’alza con un’imperiosità, uno scatto, una precisione tanto nelle salite quanto nelle aspre discese (e mai un suonaccio di petto, emissione ancorata a un fiato manovrato e controllato con abilità tecnica di caratura superiore) tutte sbalorditive, coronando l’eccezionale prestazione con un raggiante, veramente glorioso re naturale. Sorretta da ispirazione meno alta, la seconda aria di Giselda in ritmo di polacca: ma esattamente come accadde con la Scotto, a far la differenza e renderla magnifica al par dell’altra è l’esecuzione travolgente di questa grande voce su di un’orchestra in tutto degna di lei. Alex Esposito porta al suo primo Verdi la morbida, compatta, scorrevolissima linea vocale che rende eccezionale per non dire unico il suo Rossini: l’ambigua, mortifera tessitura di Pagano (che alle frequenti discese sotto al rigo accoppia scalate ad acuti di netto stampo baritonale) è pienamente dominata dalla sua voce splendida di timbro e d’autorità tecnica, piegata a sottigliezze e sfumature memorabili che scontornano (no-
nostante il delirante costume da Panoramix) un personaggio piagato ma mai prostrato. Francesco Meli ha il timbro baciato dagli Dei che ben gli si conosce, valorizzato dall’ottima tecnica che presiede alla sua emissione e ancor più dalla varietà della sua tavolozza accentale. Magnifico il coro, non solo nella fin troppo famosa pagina tanto celebrata dal Giusti, ma soprattutto in quella più difficile, più insidiosa eppur bellissima della valle di Giosafat.