WOLF-FERRARI IL SEGRETO DI SUSANNA POULENC LA VOIX HUMAINE
INTERPRETI A.C. Antonacci, V. Prato DIRETTORE Diego Matheuz ORCHESTRA del teatro Regio
REGIA Ludovic Lagarde
TEATRO Regio
★★★★★
“Ma l’Antonacci non si confronta con nessuna: troppo potente il carisma, troppo moderno il lavoro sulla parola nonché il gesto che tale lavoro completa”
Si dice che la speranza sia l’ultima delle virtù destinate a morire. Spero dunque che il livello di questa serata (coronamento d’una stagione molto ben impostata che avrà l’ultima sua prestigiosa coda col trittico Mozart/DaPonte, già visto ma proposto in veste musicale assai allettante) non resti come malinconico memento-requiem d’un teatro le cui ultime vicende hanno dell’incredibile, e le dichiarazioni dei suoi nuovi dirigenti hanno dalla vieta insipienza la loro unica ragion d’essere.
Mai capito perché Wolf Ferrari sia così poco rappresentato. Se la sua opera verista - I gioielli della Madonna - è brutta assai e l’altra seria - Sly - solo poco meglio, nell’area della commedia è invece un grande compositore di teatro musicale: le opere tratte da Goldoni sono una più bella dell’altra, e un gioiellino è questa che deriva da Feydeau. Ma la commedia, si sa, quasi sempre è parecchio più difficile a farsi della tragedia: occorre trovare i tempi giusti, il giusto ritmo musicale, la giusta miscela di corse in avanti e innuendi, per usare un termine non per caso caro a Lubitsch che della commedia cinematografica è uno dei Pontefici Massimi. Diego Matheuz ha fatto suonare l’ottima orchestra torinese con un mix perfetto di delicatezza e brio, di sensuale abbandono e d’irruenza, nell’ambito d’una fluidità di racconto priva d’alcun punto morto. Solo fino a un certo punto aiutato dalla regia di Lagarde, nata all’Opéra Comique di Parigi. E questo è un primo problema, comune d’altronde a nove coproduzioni sui dieci. La Salle Favart è piuttosto piccola e con un’ottima acustica, mentre il Regio di Torino è piuttosto grande e la sua acustica ben si sa come non si possa definire ottimale; la piccola scena ideata da Antoine Vasseur ha dovuto essere piazzata piuttosto indietro, acuendo i problemi sia acustici sia visivi: penalizzando così le doti straordinarie di Anna Caterina Antonacci, tra le attrici-cantanti più straordinarie dei nostri tempi. Ma anche come regia in sé, quella di Vasseur aveva dei limiti. L’esile trama (Gil avverte odore di fumo di sigaretta, da lui detestato sopra ogni cosa; sospetta che in casa sia entrato un uomo; cerca di sorprendere la moglie in fallo per due volte, e alla seconda scopre il suo segreto: Susanna, con la complicità del servo muto, gli ha mancato sì di fede, ma solo al suo divieto di fumare. E per il sollievo, si mette a fumare pure lui) mi pare imponga di insinuare allo spettatore il dubbio che effettivamente Susanna possa avere un amante: ma se fin dal primo minuto la vediamo fumare cercando poi di nascondere sigaretta e relativo fumo, una buona dose di elettricità teatrale se ne va. E la rimanente sta su molto più per la bravura personale dei cantanti e del mimo Bruno Danjou che per reale ritmo registico. Ma quanto sono bravi!
Vittorio Prato, con la sua bella voce di baritono leggero molto ben emessa e governata, regge magnificamente la scena davanti a un’Antonacci, e questo sarebbe già dire abbastanza. Ma in più, mi pare interessantissima idea quel suo leggero scantonare verso un’enfasi quasi
da verismo italiano nell’irresistibile “Sì, sì, l’odore c’è”, contrapposta all’eleganza un po’ fatua e moltissimo sensuale (una sensualità tutta di testa, squisitamente francese) di un’Antonacci che cesella ogni frase, ogni parola, ogni fonema: siamo nel 1909, e questa acuta fusione stilistica – appena accennata, si capisce, nessun puntiglio intellettualistico – è quel pizzico d’ironico pepe che dà giusto sapore storico a una teatralità comunque irresistibile.
Seconda parte della serata, La voix humaine che Francis Poulenc ha composto musicando integralmente il testo teatrale di Jean Cocteau. Testo datato se mai ce n’è uno, ruffianissimo, quindi cavallo di battaglia riservato alle supergrandi, pena un ridicolo da scompisciarsi. E confronto temibile, qui a Torino, giacché difficile è scordarsi la superba interpretazione datane nel 1999 da Renata Scotto. Ma l’Antonacci non si confronta con nessuna: troppo potente il carisma, troppo moderno il lavoro sulla parola (capillare, persin maniacale ma mai in nessun momento afflitto da calligrafismo, con quell’illusione di sorgiva spontaneità che il virtuosismo massimo possibile solo a un’artista di classe superiore) nonché il gesto che tale lavoro completa senza la minima ombra d’istrionismo nonostante le infinite sollecitazioni date dal testo ma già mascherate dalla mirabile orchestrazione di Poulenc. Un’interpretazione - una delle tante, praticamente tutte di quest’eccelsa artista - da libro d’oro del teatro musicale.