VERDI IL CORSARO
INTERPRETI I.A. Rivas, R. Mantegna, S. Piazzola, S. Gamberoni DIRETTORE Matteo Beltrami ORCHESTRA Regionale dell’Emilia Romagna REGIA Lamberto Puggelli TEATRO Municipale ★★★
“Lo spettacolo di Lamberto Puggelli, rimesso su da Grazia Pulvirenti Puggelli, regge molto bene il tanto tempo trascorso dal suo nascere a Parma”
Si chiude con quest’opera una delle più intelligenti e stimolanti stagioni allestite da uno di quei teatri che una volta si chiamavano minori e forse lo erano ma assolvendo funzione determinante per la tenuta culturale del territorio, e che via via hanno perduto per inseguire improbabili miraggi cultural-chic di questo o quel direttore artistico da strapazzo. Scelte anche controcorrente di titoli una volta molto amati e poi avuti “a gran dispitto” da certa superciliosa intellighenzia musicale. Scelte sempre avvedute, però, potendo disporre (qui sta il discrimine che separa l’arroganza dalla competenza) di cast all’altezza: che tali scelte appunto sollecita e giustifica; nonché di allestimenti che per dover essere necessariamente risparmiosi non inseguono però il miraggio pseudointellettuale - e quindi scemo del “famolo strano con pochi
soldi” bensì quello ben più pagante del “famolo chiaro”. Risultato della stagione piacentina: teatro sempre pieno di pubblico entusiasta.
Il corsaro, assieme all’Alzira, ci sono pochi dubbi sia l’opera meno bella di Verdi, che d’altronde la compose di malavoglia e solo per non dover incorrere in grane legali per mancato obbligo contrattuale. Dunque la scrive senza provvedere - caso più unico che raro - a sistemare da par suo una drammaturgia sbilenca e arruffata, piena d’incongruenze e di effetti senza cause. Però la scrive pur sempre Verdi. E dunque pure qui, magari senza troppo accorgersene, porta avanti la sua innovativa impronta di drammaturgia musicale: che per esempio gli fa scrivere una delle sue arie più belle (quella di Medora) ma come avrebbe potuto scriverla Donizetti; laddove nei duetti spezza la classica forma del “prima lui, poi lei, poi tutti e due” impostando un dialogante botta e risposta che configura non più il “numero d’opera” bensì la scena. Teatro verdiano, appunto, che sulla scena si fonda e si costruisce, con le sue parole pertanto significanti solo qui e adesso: sicché, per sublime che sia l’aria di Medora, i duetti Gulnara-Seid e Gulnara-Corrado sono epidermicamente meno suggestivi ma teatralmente più interessanti. Ma proprio per questo richiedono molto a chi deve eseguirli. Matteo Beltrami tiene insieme un’orchestra un tantino ondivaga facendola non solo suonare piuttosto bene, ma estorcendone discrete finezze strumentali: talora persino eccedendo, giacché di gemme da scoprire non ce ne sono poi chissà quante, e se lodevolissimamente evitata è certa quarantottesca trucibalderia alla cuore in mano (infausto retaggio di tanta trombonesca retorica verdiana di marca Bruno Barilli), nei succitati duetti forse una maggiore incisività nell’avvolgere con lo strumentale la parola non avrebbe guastato. Sostiene comunque benissimo il canto, Beltrami: e se questo è importante sempre, decisivo è in casi come questo. Il protagonista, Ivan Ayon Rivas, è un tenore peruviano di venticinque anni: bella voce, gran temperamento, tecnica già salda nell’appoggiare sempre sul fiato la linea vocale controllandola e proiettandola così da tenerla morbida e omogenea su tutta la gamma ma anche da poterla plasmare in una varietà dinamica che rende ovunque viva e vibrante la parola verdiana. Debutto coi fiocchi.
Roberta Mantegna è una delle voci su cui oggi più si scommette, con tutti i rischi ma anche l’eccitazione che la cosa comporta. Voce non bella in senso classico, ma con la tipica (callasiana…) particolarità che la rende più bella d’un dono privilegiato: ha un colore scuro e come scabro che la fa riconoscere subito anche nel più folto dei concertati, anche perché del pari personalissimo è l’accento che su tale colore si costruisce. Accento vario, mobile, tutto centrato sulla parola: ideale, per Verdi. La linea ha qualche disuguaglianza, e a mio avviso un maggiore lavoro sugli estremi acuti per smussare certa asperità non nuocerebbe di certo: ma la personalità è di quelle che s’impongono immediatamente, e questo a teatro (figuriamoci nel teatro verdiano) paga sempre. Stupenda Medora è Serena Gamberoni: la sublime “Non so le tetre immagini” le riesce meravigliosamente, l’innerva di trepidazione senza mai cadere nello svenevole, sta benissimo in scena, e insomma con un’aria e un piccolo duetto sa costruire un personaggio. Inutile nascondersi dietro un filo d’erba: il punto debole della serata è Simone Piazzola. Il poderosissimo dimagrimento ha prodotto dei guai ad una delle organizzazioni vocali migliori uditesi negli ultimi anni: volume drasticamente diminuito, fatica tanta nel salire, linea indurita, ovvia limitazione nel variare il fraseggio. A mio modesto avviso, dovrebbe fermarsi per un paio d’anni e ricostruire tutta l’organizzazione vocale su di un fisico fattosi significativamente diverso.
Lo spettacolo di Lamberto Puggelli, rimesso su da Grazia Pulvirenti Puggelli, regge molto bene il tanto tempo trascorso dal suo nascere a Parma: ritmo sciolto ed efficace, sagace ricorso al maestro d’armi Renzo Musumeci Greco per le scene di battaglia, qualche rumore di scena un po’ invadente ma nel complesso efficacia teatrale notevole.