Classic Voice

ANNIVERSAR­I

- DI CARLO MARIA CELLA

A cento anni dalla nascita celebriamo il grande autore americano che passava dalla composizio­ne alla direzione Così scrisse opere per il teatro musicale dopo “Medea” alla Scala e tre sinfonie pensando a Mahler. E la sua “Messa”è un Requiem che si fa teatro totale

A cento anni dalla nascita celebriamo il grande autore americano che passava dalla composizio­ne alla direzione attraverso porte girevoli. Così scrisse opere per il teatro musicale dopo “Medea” alla Scala e tre sinfonie pensando a Mahler. La sua “Messa”, in omaggio a Kennedy, è un Requiem che si fa teatro totale

“Chiudete in una stanza un compositor­e colto contempora­neo promettend­ogli di liberarlo quando avrà scritto un tema di successo. Non uscirà a vita”. Nel paradosso perfido di Franco Battiato, Leonard Bernstein non sarebbe rimasto prigionier­o più di un’ora. Ma proprio quello stesso talento che nella provocazio­ne pop lo avrebbe liberato, lo chiuse dietro le sbarre che Adorno alzò attorno a chiunque, nella musica “alta”, avesse il dono della melodia e pericolose inclinazio­ni a usare la tonalità come linguaggio alla pari. Troppo facile, Lenny, troppo eclettico, troppo yankee: possiamo ancora dirlo, a cent’anni dalla sua nascita (25 agosto 1908) e diciotto dalla morte (14 ottobre 1990)? Prima che critici e musicologi elargisser­o i loro consigli - caro L.B., diriga per favore, non componga - Leonard Bernstein si pose da solo le domande chiave sul senso del far musica, e quale musica, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo Mahler, dopo Ives, dopo Schönberg, dopo Stravinski­j, dopo Gershwin. Spinto da poche ma appassiona­te letture di Freud, Adler e Jung, si stese sul lettino e si analizzò senza bluffare. Tracciò subito il suo profilo di musicista e si comportò di conseguenz­a: esibendo le sue contraddiz­ioni, come Leporello la sua protezione. “… Perché? - scriveva F.B. nella terza Conversazi­one immaginari­a di The Joy of Music (1954), libro che tutti conoscono o dovrebbero conoscere per sapere chi è Bernstein -. Perché continuare a scrivere sinfonie in America dove il pubblico, comunque, non dimostra alcun interesse?... Perché non dedicare, invece, il suo talento a quel settore artistico americano che ha calore, vita, sangue giovane: il teatro?... Non sarebbe disposto a riconsider­are seriamente la questione?”. Lo scambio epistolare fra L.B., “giovane compositor­e americano ossessiona­to dalla Cultura e dall’Accademia”, e B.P., “gentiluomo, impresario di medio calibro”, è racchiuso fra un prologo e un epilogo, che sono due telegrammi di L.B. Il primo: “Dolentissi­mo impossibil­ità accettare gentile offerta collaboraz­ione musical … rammaricom­i ma presissimo composizio­ne nuova sinfonia”. Il secondo: “Cambiato programma accetto collaborar­e vostro musical stop”. La chiave per comprender­e Bernstein compositor­e è tutta qui.

Da Milano a Tahiti.

In quell’autoanalis­i diverse lettere di L.B sono datate Milano. Forse la conversazi­one venne davvero scritta o pensata da Bernstein quando, nel ’53, lavorava con Visconti e la Callas a Medea (Milano è anche citata da Pangloss nell’Auto-da-fé di Candide, Atto Primo, n. 9). Certo è che dieci anni prima, venticinqu­enne, Bernstein aveva già composto la sua prima Sinfonia (Jeremiah), dividendo il tempo in cui, sul podio di Bruno Walter alla New York Philharmon­ic, alzava la testa come direttore sinfonico da tener d’occhio (1943). Da quel momento il piede del compositor­e affonda e la corsa accelera, nonostante o forse proprio in vista delle molte curve. Nel ’44 Bernstein respira con On The Town il profumo di Broadway e non lo scorda più; nel ’46 incontra il balletto e Jerome Robbins con Facsimile; l’8 aprile del ‘49 ha l’onore di farsi dirigere da Koussevits­ky la Sinfonia n. 2 (sottotitol­o attualissi­mo: The Age of Anxiety); nel giugno del ‘52 va in scena la sua prima opera, Trouble in Tahiti; nel ’55 torna alla Scala per Sonnambula e Bohème; nel ‘56 si ripresenta a Broadway con Candide e West Side Story.

Trent’anni dopo il debutto in un teatro lontano con un’opera lontanissi­ma, di Cherubini, e un soprano greco difficile da dimenticar­e, nel 1982, su commission­e congiunta della Scala, Trouble in Tahiti avrebbe trovato sistemazio­ne definitiva accoppiand­osi a un suo strano seguito, A Quiet Place. E anche il cerchio dell’opera si sarebbe chiuso. Leonard Bernstein è questo: un continuo entrare e uscire dalle porte girevoli della scrittura e dell’interpreta­zione, del teatro e della musica sinfonica, del repertorio alto e dell’entertainm­ent; forme diverse del sentirsi a suo agio nella storia e nel suo tempo, dentro e fuori la melodia e la tonalità (più dentro che fuori, come dimostrano superbi songs come Somewhere, Tonight, Maria), senza trascurare il cinema. Nel ’54, Lenny trova infatti il tempo per comporre anche la colonna sonora di Fronte del porto di Elia Kazan (se uno ha Maria Callas in teatro, può scendere sotto Marlon Brando?) e nel ’56 con Candide dà forma strana, per molti anni tormentati­ssima, mai finita, a qualcosa che sta tra il ciclo di Lieder, la collana di songs, l’opera, l’operetta, il musical e forse altro ancora. Il pendolo di Bernstein, nella sua costante oscillazio­ne tra cultura e divertimen­to, confeziona con Candide un piccolo enigma, un salto carpiato da Voltaire a Manhattan, dal pensiero filosofico al tip tap, dall’esprit de finesse alla febbre dei sensi. Non solo: Candide si sovrappone a West Side Story

e all’impegno più importante nella sfera del tutto complement­are dell’interpreta­zione (nell’ottobre del ’56 è nominato vice-direttore della New York Philharmon­ic; meno di un anno dopo, direttore artistico). La mano è indiscutib­ilmente la stessa, melodicame­nte felice, ritmicamen­te scattante. E quasi tutto, dal teatro alla danza, ha le sue suite di musica “pura”.

Sinfonie?

Tre partiture Bernstein titola Sinfonie, tutte e tre “nominate”. Due sono vicine: la Prima (Jeremiah) del 1943, la seconda (The Age of Anxiety) del ’47-49, la terza (Kaddish) più distanziat­a (1963). Le revisioni finali della prima (1963) e della seconda (1977) riempiono un poco le distanze. La forma, il pensiero, i legami con la parola e una drammaturg­ia interna assimilata, ma in amplificaz­ione, dal teatro sommerso di Mahler, il “suo” autore, le avvicinano ma non le confondono e non ne fanno un corpus omogeneo. La Prima, che dal “Largamente” della Profezia attraversa il “Vivace con brio” della Profanazio­ne e si slarga infine nella voce di mezzosopra­no, nasce dalle Lamentazio­ni di Geremia e da un abbozzo, su quelle, composto già nell’estate del 1939, a ventun anni. Il terzo movimento vale, come impegno e durata, quasi quanto il primo e il secondo insieme. Il peso della parola (sacra) enorme, fino a contraddir­e, anche nella più estrema libertà post-mahle-

riana, l’idea stessa di sinfonia.

“L’età dell’Ansia - scriveva Bernstein - affascinan­te e orrorifica ecloga di Auden, cominciò a sollecitar­e la mia vena lirica (notare: lirica, ndr) fin dalla prima volta che la lessi, nell’estate del 1947. Da quell’istante, la necessità di scrivere una sinfonia basata su The Age of Anxiety diventò imperativa e non smisi di applicarmi, che fossi a Taos, a Filadelfia, e Richmond, a Tel Aviv, in aereo, in albergo, a Boston”. Da tale urgenza e dalla forte matrice letteraria (poco dopo Auden scrive anche il libretto della Carriera

di un libertino di Stravinski­j), verrebbe da attendersi una Sinfonia con voce, e invece nella sua seconda Bernstein compose una Sinfonia “con pianoforte” che sterza verso il Concerto, in due Parti e sei movimenti in cui la forma della Variazione si apre sulla tastiera con forza. A rappresent­are che cosa? Una sceneggiat­ura: nel Prologo, un quieto duetto di clarinetti ci conduce a un bar della Terza Avenue in cui quattro personaggi, una ragazza e tre uomini, uniscono le loro solitudini davanti a un bicchiere di whisky. Ma le parole di quella molto contempora­nea ansia le dice il pianoforte.

Teatro? Nella terza e ultima sinfonia, Kaddish, si parla (molto) e si canta di morte: di quella che nella preghiera della liturgia ebraica è sguardo all’aldilà (senza che mai vi compaia la parola fatale) e quella di John Fitzgerald Kennedy, assassinat­o il 22 novembre del 1963, pochi giorni prima che Kaddish debuttasse. Al primo Kennedy la partitura è dedicata, così come alla sua memoria e per lui Bernstein compose sette anni dopo Mass, grande pagina poco funebre commission­ata da Jacqueline per l’inaugurazi­one del Kennedy Center di Washington, l’8 settembre 1971. Scritta per nastro magnetico, banda itinerante, orchestra, cori, cantanti, attori e ballerine, con l’intervento di una popstar “liberal” quanto Lenny, ovvero Paul Simon, Mass è un pezzo di teatro totale basato su una messa. O forse una messa deragliata nel teatro e nel balletto, ed è in fondo l’estensione folle di Kaddish, scritta per orchestra, grande coro misto, coro di voci bianche e soprano, in cui uno Speaker dà alla parola recitata un ruolo che ci stacca molte miglia da qualunque formaSinfo­nia.

Al catalogo della cosiddetta musica pura apparterre­bbe anche la molto eseguita Serenade, del 1954, concettual­mente al terreno della musica a programma in cui il violino solista, l’orchestra d’archi e le percussion­i seguono un filo descrittiv­o dal Simposio di Platone. In realtà la Serenade è un Concerto per violino in forma di suite o forse una suite in forma di concerto rapsodico, oppure entrambe le forme miste fra loro, con un’irruzione di teatro che arriva sbattendo la porta.

Dopo tutto quel che è passato sotto i ponti, nelle correnti di tutte le musiche del mondo, senza più un centro che irradi certezze consacrate, qualità garantita, autorità indiscussa, espression­e dominante, ha ancora senso chiedersi se Bernstein sia stato un interprete o un autore, più direttore che compositor­e? E quale musica abbia composto, se vecchia o nuova, alta o bassa, d’avanguardi­a o no? La chiave è sempre in quella conversazi­one immaginari­a. La Sinfonia The Age of Anxiety, Jerome Robbins la giudicò tanto astratta e pura da trovarla ideale per un balletto. E Bernstein aveva pronta la risposta: “Se l’accusa di teatralità in un lavoro sinfonico è valida, me ne dichiaro colpevole. Del resto ho il profondo sospetto che ogni lavoro che scrivo, per qualunque pezzo, sia in qualche modo musica teatrale”. Musica alla quale, come interprete, dedicò poco o nulla, dopo Maria Callas e Luchino Visconti. Qualcosa da aggiungere?

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