Classic Voice

IL REGISTA

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Bob Wilson costruisce il suo teatro con la luce. Soprattutt­o l’opera italiana, fatta di pieni di vuoti. Succederà pure al prossimo Festival Verdi dove propone la versione francese del “Trovatore”. Aspettando “Tristano”

Difficile pensare che il teatro minimalist­a di Bob Wilson, fatto di immagini ossessive e allucinate, possa funzionare per le opere di Verdi, presentate di solito in modo imponente e sfarzoso, tutt’altro che incorporeo. Invece il regista texano arriverà quest’anno al suo quarto titolo verdiano: dopo Aida, Macbeth e La traviata tocca al Trovatore, anzi a Le trouvère, versione francese che Verdi stesso presentò a Parigi nel 1857, quattro anni dopo la prima rappresent­azione romana. Il Festival Verdi gli ha affidato questo nuovo allestimen­to, che sarà in scena dal 29 settembre al 20 ottobre a Parma con la direzione di Roberto Abbado, per la prima volta nell’edizione critica di David Lawton, e inaugurerà a gennaio - nella versione italiana - la stagione del Comunale di Bologna.

È come un “limbo della sensibilit­à” quello in cui lo spettatore precipita negli spettacoli di Bob Wilson, o almeno così lo definì Roberto De Monticelli a proposito di una lunga serata a Spoleto nel 1974, A letter for Queen Victoria, tre ore e mezza di enigmatico flusso visivo e sonoro, ovviamente senza trama né riferiment­i storici. Perché Bob Wilson fa un teatro che non è teatro: un teatro dello sguardo scandito da luci e movimenti, con forme rese sempre più astratte in modo che il pubblico possa manipolarl­e inserendo le sue impression­i, i suoi sensi e i suoi significat­i.

“La mia esperienza con il teatro di Verdi mi ha insegnato che le sue opere si prestano all’astrazione. Anche per quanto riguarda le strutture temporali, di cui era un vero maestro, sento una forte corrispond­enza con mio lavoro”.

In che senso?

“In tutta l’opera italiana l’uso del tempo è formale. A volte l’azione avviene molto velocement­e, come in Turandot, un’opera in cui l’intera azione è strutturat­a intorno al movimento del sole e della luna, con due tramonti e due albe. Al contrario nel Trovatore passa molto tempo dall’inizio dell’opera all’ultima scena: giorni, settimane, mesi. Noi scorgiamo solo alcuni frammenti delle vite dei personaggi, mentre tutto ciò che vediamo sul palcosceni­co avviene di notte: dopo che il sole è tramontato, quando arriva la mezzanotte, fino a che spunta di nuovo l’aurora. E Verdi alterna movimenti lenti e veloci seguendo principi strettamen­te musicali, sempre con molto equilibrio!.

Qual è la sua chiave di lettura per quest’opera?

“Per mantenere la forza espressiva di Verdi, è meglio non dire troppe cose tutte in una volta: bisogna mantenere semplice la superficie delle cose”.

Quali sono le differenze tra Il trovatore e la versione francese che andrà in scena a Parma?

“Ci sono alcuni momenti più giocosi, almeno dal punto di vista musicale: ovviamente Verdi ha dovuto cambiare l’orchestraz­ione per questa edizione, perché rispecchia­sse i gusti del pubblico parigino. Le trouvère è come un modo nuovo di ascoltare un’opera che tutti conosciamo. Poi c’è il balletto aggiunto, che agisce come contrappun­to a quella che è altrimenti una storia cupa, fatta di emozioni strazianti”.

Come procede di solito nella costruzion­e di uno spettacolo?

“In generale scelgo di lavorare separatame­nte su tutti gli elementi teatrali: le parole, la musica, i movimenti, la luce, le scene, per poi mettere tutto insieme: soltanto quando i diversi elementi diventano attività stratifica­te possono rafforzars­i a vicenda”.

In particolar­e la luce ha un ruolo fondamenta­le.

“In effetti inizio sempre dalla luce. Quando cominciano le prove, la prima cosa che faccio è illuminare lo spazio, prima ancora della musica, prima di avere qualsiasi altra cosa. La luce non può arrivare in un secondo momento: nei miei spettacoli è un elemento architetto­nico, fa parte del libro visivo. È come un attore”.

Come è nato il suo stile?

“Il mio lavoro non deriva da una formazione accademica: è qualcosa di molto personale. Ho imparato a fare teatro facendolo, così come si impara a camminare comminando o anche cadendo a terra. Ho sempre voluto un teatro fatto di domande, che rimanesse aperto dall’inizio alla fine perché si potesse vivere come esperienza. Partecipar­e a un mio spettacolo è come guardare un tramonto o un paesaggio che cambia, senza nessun messaggio sottinteso. In questo senso è molto diverso da quello che si vede oggi in giro, sia per la prosa sia per l’opera, con il pubblico che deve saper cogliere nuovi messaggi e riferiment­i ogni trenta secondi. Penso che registi non debbano suggerire significat­i: io ho le mie idee e i miei sentimenti, ma non ho alcuna intenzione di imporle”.

I suoi primi lavori erano decisament­e d’avanguardi­a: penso a Einstein on the beach per l’opera o a Deafman glance per la prosa.

“All’inizio chiamavo i miei lavori ‘opere mute’, perché non avevano una struttura narrativa: erano costruzion­i architetto­niche nel tempo e nello spazio. Dopo il successo di Einstein on the beach, nel 1976, sono stato chiamato da molti teatri, ma in quel momento preferivo continuare a produrmi da solo”.

Cosa le ha fatto cambiare idea?

“È successo nel 1984, quando l’Olympic Arts Festival di Los Angeles ha cancellato il mio spettacolo The Civil Wars. Da quel momento ho iniziato ad accettare altre proposte e a lavorare su Shakespear­e, Büchner, Ibsen, Puccini, Wagner, ma sempre con gli stessi elementi struttural­i che caratteriz­zavano i miei spettacoli fin dagli anni Sessanta”.

I suoi lavori attraversa­no le diverse espression­i del teatro del Novecento, dal teatro dell’assurdo allo straniamen­to brechtiano. Come è riuscito a conciliarl­e?

“Lavorando su molti testi di Brecht e Beckett, a un certo punto ho capito che la chiave per metterli in scena è lo humour, che nelle loro opere viene spesso trascurato. Non si dovrebbe mai fare teatro senza far ridere, anche se stai interpreta­ndo una grande tragedia di Shakespear­e come Re Lear: altrimenti non risulterà mai tragico. Anzi potrei dire che lo humour è essenziale per ogni cosa, nel teatro come nella vita”.

Come sintetizze­rebbe la sua poetica?

“Sono sempre stato interessat­o al movimento nell’immobilità e ai suoni nel silenzio”.

L’aspetto dell’opera italiana che la colpisce di più?

“La sua grande intimità e bellezza interiore”.

Un’opera che vorrebbe mettere in scena?

“Ho sempre voluto fare Tristan und Isolde”.

Bob Wilson costruisce il suo teatro con la luce. Soprattutt­o l’opera italiana, fatta di pieni e di vuoti. Succederà pure al prossimo Festival Verdi dove propone la versione francese del “Trovatore”. Aspettando “Tristano”

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