CLASSIC VOICE CD
Con la prima guerra mondiale Debussy torna alla musica da camera. E dopo il giovanile Quartetto scrive tre Sonate rivolte al mondo di Couperin e Rameau. Influenzate dal nazionalismo imperante, ma rivolte alla pura contemplazione della bellezza
Con la prima guerra mondiale Debussy torna alla musica da camera. E dopo il giovanile Quartetto scrive tre Sonate rivolte al mondo di Couperin e Rameau. Influenzate dal nazionalismo imperante, ma rivolte alla pura contemplazione della bellezza
C’è una bella fotografia, che si direbbe scattata in uno studio con damaschi e piante, di Debussy diciottenne. È accovacciato per terra, in basso a destra, inserito in un ideale triangolo in cui gli altri due angoli sono occupati - in basso a sinistra - da un giovane barbuto, seduto su un divano, e - in piedi nel mezzo - da un giovane biondo con elegante panciotto. L’immagine ci riporta al momento aurorale della musica da camera di Debussy. Siamo a Firenze, nel mese di settembre del 1880, in una sontuosa villa sulle colline nei pressi di San Miniato. I tre giovani - il nostro francese e due russi - fanno parte della variopinta corte della baronessa von Meck, e formano un trio con Debussy al pianoforte. Suonano ogni sera, per la delizia della numerosissima famiglia baronale e dei suoi ospiti. Una di quelle sere risuonò, di Debussy, un Trio in sol maggiore, un po’ César Franck, un po’ Borodin: una composizione scritta per una dama cinquantenne che immancabilmente avrebbe sottoposto quelle pagine, ancora fresche d’inchiostro, al giudizio del Nume lontano di quella casa, Peter Ilic Ciaikovskij. Una composizione da camera, alla fin fine, scritta per allietare intelligentemente una serata fiorentina... e per piacere a Ciaikovskij. L’immaginazione musicale e il gusto artistico del giovane Achille (come ancora si chiamava) devono molto al clima dorato di quelle estati al seguito della von Meck. E altrettanto luminose sono le giornate parigine delle altre tre stagioni passate nell’attesa di potersi infilare nel salotto, se non nell’alcova, della bella Marie Vasnier, il soprano a cui dedica una serie mirabile delle sue letture musicali di Verlaine e dei parnassiani. In ogni caso egli ebbe le occasioni e i luoghi giusti dove potersi scrollare di dosso la polvere dei contrappunti e delle regole del Conservatoire, e cercare subito una via nuova verso l’eleganza, la sensiblerie, l’aristocratico alleggerimento dell’espressione e della discorsività (il rifiuto di tutto quello che, secondo L’art poétique di Verlaine,“pèse et pose”). La musica da camera strumentale ha però, nella sua vita, un ruolo diverso dalla musica da camera vocale delle “chansons”, delle “mélodies” e dei “poèmes”. Ai poeti “che ci danno i loro occhi e il loro cuore per vedere e per sentire”, Debussy rimase fedele per tutta la vita. E invece il Trio in sol maggiore, così come Nocturne et Scherzo - destinato a completare, nella versione per violino e pianoforte, un concerto privato con la Vasnier; nella versione per violoncello, destinato alle serate della von Meck - formarono, con poche altre pagine, una breve stagione circoscritta alla prima giovinezza. Si sarebbe tentati di considerare chiusa, questa stagione, con il Quartetto d’archi in sol del 1893, eseguito dal quartetto Ysaÿe poco prima della rivelazione al mondo del Prélude à l’après-midi d’un faune: quel Quartetto raccoglieva tutti gli ideali giovanili di leggerezza, finezza, fantasia, e li
A sinistra: Matisse, “Le violoniste à la fenêtre” (1918)
et joyeux”). L’“Interlude” è un tempo di minuetto lento, in cui ogni strumento ha spazi per quella che diresti una costante improvvisazione, priva di vincoli prefissati: la forma, che sulla carta mostra tutto il suo ordine, risulta all’ascolto come se nascesse dall’incontro di tanti sentieri appena intravisti e mai davvero percorsi fino in fondo. Il terzo movimento, “Finale”, è un tesoro di slanci, di radiose animazioni, di gioie al limite del dionisiaco: quando, al termine, ritorna un’eco della Pastorale, tutto ricade nella lontananza del ricordo. È forse a quest’opera che si affida, più che alle altre del periodo pur mirabili (tra cui ci sono le Études per pianoforte, naturalmente), la funzione di una summa, di un suggello: si incarna qui, senza alcun residuo, l’aspirazione a un’arte depurata da psicologismi romantici, un’arte di puro gioco fantastico. Con altri mezzi, forse solo Olivier Messiaen penso alle sue incredibili escursioni nel campo dell’ornitologia - saprà capire tale lezione. Debussy dichiarò di cercare una via tutta francese, che rinverdisse le glorie passate di Rameau. Esibiva con ciò un intento patriottico, pesantemente tributario del clima nazionalistico degli anni di guerra. Ma non riesce a fuorviarci più di tanto: se impariamo ad amare queste sue ultime opere, delicate e quasi fragili, andiamo al cuore di una musica che non vuole essere altro che puro gioco dell’immaginazione. Qui sta la vera natura novecentista di un autore che odiò la volgarità vociante della nostra opera e rifuggì nello stesso modo dai simbolismi esoterici del Parsifal,e che riuscì ad evitare anche la pedanteria di Saint-Saëns e le complicazioni di Franck. Forse Boulez ha esagerato a considerare Debussy come un weberniano ante litteram: eppure, nonostante l’abissale diversità dei mezzi impiegati, c’è - proprio e soprattutto in queste sue ultime opere - l’emozione di chi ha riscoperto, nei suoni, la contemplazione della bellezza e di un ordine “altro”.
In basso: Gustave Caillebotte “Jeune homme au piano”