CLASSIC VOICE ALBUM
Bernstein fu anche pianista “entusiasta”: nei richiami jazz del Concerto di Ravel e nell’umorismo del “Primo” di Beethoven
Più che altri direttori prestati alla tastiera, Leonard Bernstein fu vero e proprio pianista, del genere “entusiasta”: lo sentiamo nei travolgenti richiami jazz del Concerto di Ravel e nell’umorismo del “Primo” di Beethoven, che ascoltiamo come album digitale del mese
Non è certo una rarità che un direttore sia anche un eminente pianista; per citare soltanto qualche caso più rimarchevole, quello di Mitropoulos, ferratissimo nel dominare le insidie del Terzo di Prokofiev o di Solti che lasciò una promettente carriera solistica dopo la vittoria del Concorso di Ginevra, senza dimenticare Szell, Bruno Walter, Sawallisch, Previn e molti altri tra cui quelli che hanno salomonicamente gestito la convivenza dei due ruoli, Ashkenazy e, di recente, Pletnev. Ma il caso più rilevante è certamente quello di Bernstein. Si era affermato precocemente come pianista, proponendo programmi impegnati, come le aspre Variations di Copland, maestro e mentore imprescindibile nella carriera compositiva di “Lenny” che si estese lungo varie direttrici, lasciando sorprendentemente poco spazio alla creazione pianistica, praticamente concentrata, a parte una Sonata giovanile, su quella collana di brevi brani che sono gli Anniversaries e il più ampio Touches composto negli anni 80. Per trovare un pianoforte più “importante” occorre entrare nel recinto sinfonico, in quella seconda Sinfonia The Age of Anxiety in cui la formula del Concerto per pianoforte e orchestra si dissolve dietro la forte sollecitazione della “ecloga barocca” di Auden. Ma come suonava Bernstein? Devo rinnovare il ricordo avvincente di quando lo ascoltai a Firenze, agli inizi degli anni 70, una tappa della tournée coi Wiener Philharmoniker in un programma che lo vedeva solista del Concerto in Sol di Ravel, uno dei brani che più rispondevano alla sua vitalistica energia per il riverbero jazzistico sotteso a quel capolavoro. Una visione quanto mai lontana, nello stesso sforzo che talora affiorava dal gestire su due fronti quell’esaltante scatenamento ritmico (con il fantasma, inevitabile, di Gershwin) da quella che era andata sedimentandosi in maniera quasi emblematica nella collaborazione tra Benedetti Michelangeli e Celibidache dove quei riverberi parevano sublimarsi, farsi come enigmatici, innervati entro il tessuto del geniale artificio raveliano. Per Bernstein invece giocava quella capacità di immer- sione che era un suo tratto insottraibile, la musica come felicità e come demone. Che è ciò che trasmetteva agli strumentisti con una gestualità corporea inimitabile e che riviveva lui stesso affondando le mani nella tastiera, con una voracità che escludeva ogni compiacimento digitale per farsi plastico, avvolgente eloquio; quel modo di colloquiare con gli strumentini che ritroviamo con intatta emozione nelle testimonianze mozartiane, tra cui il sibillino virtuosismo di quello in si bemolle K 450, uno dei Concerti che “fanno sudare” come scriveva al padre Leopold; un sudare che in Bernstein era riscattato dalla felicità, la stessa che condivideva con gli amatissimi Wiener nello sciogliere le pieghe del Primo di Beethoven, sull’onda di quella classicità resa più autorevole dalle impagabili screziature dell’umorismo che traspariva dal suo volto non meno che dalle sue dita.