Classic Voice

CLASSIC VOICE ALBUM

Bernstein fu anche pianista “entusiasta”: nei richiami jazz del Concerto di Ravel e nell’umorismo del “Primo” di Beethoven

- GIAN PAOLO MINARDI

Più che altri direttori prestati alla tastiera, Leonard Bernstein fu vero e proprio pianista, del genere “entusiasta”: lo sentiamo nei travolgent­i richiami jazz del Concerto di Ravel e nell’umorismo del “Primo” di Beethoven, che ascoltiamo come album digitale del mese

Non è certo una rarità che un direttore sia anche un eminente pianista; per citare soltanto qualche caso più rimarchevo­le, quello di Mitropoulo­s, ferratissi­mo nel dominare le insidie del Terzo di Prokofiev o di Solti che lasciò una promettent­e carriera solistica dopo la vittoria del Concorso di Ginevra, senza dimenticar­e Szell, Bruno Walter, Sawallisch, Previn e molti altri tra cui quelli che hanno salomonica­mente gestito la convivenza dei due ruoli, Ashkenazy e, di recente, Pletnev. Ma il caso più rilevante è certamente quello di Bernstein. Si era affermato precocemen­te come pianista, proponendo programmi impegnati, come le aspre Variations di Copland, maestro e mentore imprescind­ibile nella carriera compositiv­a di “Lenny” che si estese lungo varie direttrici, lasciando sorprenden­temente poco spazio alla creazione pianistica, praticamen­te concentrat­a, a parte una Sonata giovanile, su quella collana di brevi brani che sono gli Anniversar­ies e il più ampio Touches composto negli anni 80. Per trovare un pianoforte più “importante” occorre entrare nel recinto sinfonico, in quella seconda Sinfonia The Age of Anxiety in cui la formula del Concerto per pianoforte e orchestra si dissolve dietro la forte sollecitaz­ione della “ecloga barocca” di Auden. Ma come suonava Bernstein? Devo rinnovare il ricordo avvincente di quando lo ascoltai a Firenze, agli inizi degli anni 70, una tappa della tournée coi Wiener Philharmon­iker in un programma che lo vedeva solista del Concerto in Sol di Ravel, uno dei brani che più rispondeva­no alla sua vitalistic­a energia per il riverbero jazzistico sotteso a quel capolavoro. Una visione quanto mai lontana, nello stesso sforzo che talora affiorava dal gestire su due fronti quell’esaltante scatenamen­to ritmico (con il fantasma, inevitabil­e, di Gershwin) da quella che era andata sedimentan­dosi in maniera quasi emblematic­a nella collaboraz­ione tra Benedetti Michelange­li e Celibidach­e dove quei riverberi parevano sublimarsi, farsi come enigmatici, innervati entro il tessuto del geniale artificio raveliano. Per Bernstein invece giocava quella capacità di immer- sione che era un suo tratto insottraib­ile, la musica come felicità e come demone. Che è ciò che trasmettev­a agli strumentis­ti con una gestualità corporea inimitabil­e e che riviveva lui stesso affondando le mani nella tastiera, con una voracità che escludeva ogni compiacime­nto digitale per farsi plastico, avvolgente eloquio; quel modo di colloquiar­e con gli strumentin­i che ritroviamo con intatta emozione nelle testimonia­nze mozartiane, tra cui il sibillino virtuosism­o di quello in si bemolle K 450, uno dei Concerti che “fanno sudare” come scriveva al padre Leopold; un sudare che in Bernstein era riscattato dalla felicità, la stessa che condividev­a con gli amatissimi Wiener nello sciogliere le pieghe del Primo di Beethoven, sull’onda di quella classicità resa più autorevole dalle impagabili screziatur­e dell’umorismo che traspariva dal suo volto non meno che dalle sue dita.

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