Debussy attuale
I Kuijken suonano strumenti d’epoca, ma non pensano a una lettura storicizzata. Il patriarca belga della filologia spiega perché
Bisogna assolutamente rimanere onesti nelle intenzioni: noi non presentiamo un Debussy “storico” o “storicizzante” o “storicamente autentico”, ma semplicemente un Debussy inevitabilmente Kuijken. Abbiamo sempre rifiutato gli itinerari della ricostruzione storica fine a se stessa - l’archeologia non è l’Arte; tutt’al più essa porta alla luce dei frammenti di opere d’arte. Per noi, lo studio delle fonti e l’uso degli strumenti originali (?) per la musica del XVII e XVIII secolo sono stati strumento di lavoro e sorgente di ispirazione ricchi e determinanti. Ma, senza un talento fondamentale di “musicista” tout court, queste fonti e questi strumenti sarebbero rimasti muti. Non è lo strumento che suona, è il musicista. Smettiamola allora di appiccicare le etichette “all’antica”, “interpretazione d’epoca” ecc. È ormai tempo di smetterla con queste abitudini, che, prima di tutto, corrispondono in maniera sempre più evidente a fini commerciali. Tra Debussy e noi, uomini della fine del XX secolo, non ci sono state delle grandi barriere socio-culturali paragonabili a quel che è stata la Rivoluzione Francese tra noi e l’“Ancien Regime”, quello che conobbero Couperin, Rameau, Bach, Haydn, Mozart… Debussy è quindi assolutamente un compositore del nostro tempo, dei tempi moderni - non abbiamo, del resto, ancor finito di assimilarlo completamente! Mi sembra che egli sia uno dei padri della nostra musica contemporanea; perché dovremmo, quindi, perversamente, catalogarlo alla voce “Musica Antica”? E in caso affermativo, sin dove si arriverebbe? Dove avrà, allora, inizio la musica “contemporanea”? Ieri sera? O, forse, soltanto in questo momento? Si rischia l’assurdo. La musica di Debussy non ha ancora, secondo me, lo stesso bisogno di essere “rivisitata” da un punto di vista “storicizzante” come quella dei maestri del XVII e del XVIII secolo, la cui estetica e l’attitudine artistica erano così differenti dalle nostre (da cui l’interesse di reinserirli nel loro proprio contesto). Debussy ci induce a stabilire altre priorità: captare questo spirito tipico dei “nostri” anni 1890-1920 in Francia, così come esso si manifesta nel genio assolutamente originale, ed allora in piena maturità, che era Debussy. Ciò presuppone un’intima connivenza, un “accordo sentimentale” evidente, una scintilla che stabilisca un contatto immediato tra quel che Claude-Achille ha potuto immaginare ed il nostro talento di “esecutori”. Beninteso, noi abbiamo scelto gli strumenti ed il modo di suonare che a nostro avviso meglio corrispondono a questa esigenza, e che ci danno la possibilità di godere al massimo di questo contatto privilegiato con questi capolavori. Le componenti storiche sono in questo caso appena presenti. Noi, quindi, suoniamo adoperando senza esitazione le tecniche attuali.
Non ho dovuto far sforzi particolari nel tentativo di imitare, per esempio, il modo di suonare di Eugène Ysaye: questo sarà forse interessante tra un secolo. È d’altronde vero che noi siamo cresciuti nel clima della fine della “Scuola violinistica belga”, ma non saprei dire, personalmente, se questo mi dà dei diritti di priorità, anche se non si può negare che il nostro stile musicale e la nostra tecnica non appartengano né alla scuola russa né a quella americana. Quel che, essenzialmente, determina la nostra concezione dell’opera - per Debussy come per Mozart - è soprattutto un’attitudine generale di essere “all’ascolto” di quel che “vien fuori” dalla partitura stessa, più che sforzarsi prima di tutto a “metterci dentro”, a qualsiasi costo, delle interpretazioni, come se la partitura in se stessa non fosse sufficiente.