RECENSIONI
I due innamorati si incontrano di nascosto, Josephe resta incinta, scoppia uno scandalo, la giovane è condannata alla decapitazione, Jeronimo viene incarcerato e sta per impiccarsi. Ma un devastante, e provvidenziale terremoto permette ai due giovani di tornare liberi, e di vivere felici con il figlioletto Philipp, in armonia con gli altri sopravvissuti. Josephe allatta anche il figlio di Fernando Ormez e di Elvira, e solidarizza con la sorella di lei, Constanze. Ma in chiesa Pedrillo, predicatore e demagogo, attribuisce il terremoto all’ira divina per il peccato di Josephe e Jeronimo: la folla li lincia, uccidendo anche Constanze e il figlio di Fernando ed Elvira, scambiato per Philipp, che alla fine verrà adottato proprio dai coniugi Ormez. Il libretto di Marcel Beyer usava un linguaggio moderno, con dialoghi brevi, condensati. Trasformava il bambino orfano in un personaggio muto, come se avesse perso l’uso della parola dopo avere assistito a quella serie di tragiche vicende. Metteva, all’inizio e alla fine dell’opera due scene dei genitori adottivi, come momenti onirici, fuori dal tempo, collegando così la vicenda narrata da Kleist con tutti gli eventi catastrofici della storia, anche con il disastro di Fukushima, trasformandola in una parabola sull’instabilità dell’essere umano di fronte alle minacce, sulla violenza della natura e delle masse umane.
Anche Hosokawa ha immaginato la musica di quest’opera come un viaggio uditivo attraverso i sensi del bambino, come un tunnel di suoni interiori, “un rito di iniziazione aurorale”. Ha usato i consueti, collaudati campi armonici, ma differenziando molto le brevi scene, punteggiandole con tre “monologhi” orchestrali, fondendo mirabilmente l’orchestra con alcuni delicati effetti elettronici e con il coro (anche di voci bianche), che giocava un ruolo di primo piano in quest’opera. Ne risultava un’opera meno “giapponese” del solito, meno sospesa nel sogno e nel soprannaturale, ma un vero dramma, sostenuto anche da un evidente descrittivismo musicale, sottolineato con grande vividezza di colori dalla direzione di Sylvain Cambreling. La scena del terremoto e delle scosse di assestamento era costruita con un esteso episodio per sole percussioni, seguito da un crescendo degli ottoni e da un coro punteggiato da urla. Il coro diventava poi una massa sonora ritmata e martellante quando si rivoltava contro i due amanti. Nell’ottimo cast spiccavano il soprano Esther Dierkes, una Josephe dalla voce squillante e piena di accenti appassionati, il baritono Dominic Große, Jeronimo raffinato ed espressivo nella sua aria in prigione (accompagnata dal flauto basso), Josefin Feiler (Constanze), e Torsten Hofmann (Pedrillo).
Prima di mettere in scena quest’opera i registi Jossi Wieler e Sergio Morabito, insieme a Anna Viebrock, scenografa e costumista, hanno visitato Fukushima e girato un documentario, per farsi un’idea dei villaggi fantasma e delle tracce della “catastrofe della civiltà”. La scena appariva cosi piena di buche nella pavimentazione (dalla quale entravano e uscivano i personaggi), con un ponte metallico sullo sfondo (evidente riferimento all’Hashigakari del teatro No, che collega idealmente mondi diversi)
sul quale si accalcava il coro multicolore dei terremotati, e al centro un edificio fatiscente, che si muoveva in su e in giù disegnando gli spazi angusti del convento di Josephe e della prigione di Jeronimo, oscillando sopra il coro che ne sembrava schiacciato durante la scena del terremoto. Il bambino muto, interpretato in maniera commovente da Sachiko Hara, accompagna tutta la vicenda, muovendosi con agilità tra gli anfratti di quelle rovine. Sembrava giocare, ma osservava tutto con uno sguardo colmo di sofferenza.