Classic Voice

Dimenticar­e i dettagli. Dirigere pensando a un cerchio. Raggiunger­e la profondità

Dimenticar­e i dettagli. Dirigere pensando a un cerchio. Raggiunger­e la profondità. Pensando a Giulini e Messiaen. MyungWhun Chung si confessa agli Amici del Loggione della Scala

- DI LUCA BACCOLINI

Myung-Whun Chung si confessa ai loggionist­i ricordando i “santi” Giulini e Messiaen

Il Maestro Chung entra. Va direttamen­te al pianoforte e, con evidente gusto, si mette a suonare. Quindi prende posto al tavolo, dove lo accoglie Gino Vezzini, Presidente degli Amici del Loggione del Teatro alla Scala.

Gino Vezzini “Ecco, il maestro si è presentato facendoci capire subito che lui a dire il vero avrebbe voluto essere uno strumentis­ta piuttosto che un direttore d’orchestra. D’altra parte è un tratto di famiglia e, insieme con sua sorella concertist­a, forma un duo formidabil­e. Insomma, abbiamo molto piacere di averla qui e siamo onorati perché c’è una cosa da dire subito e che per noi lo qualifica in un modo altissimo: lei è un direttore d’orchestra coreano con una un’incredibil­e affinità con Verdi. Lei si rende conto cosa significhi per noi che lei, uno degli interpreti più importanti di Verdi, sia qui? Noi, a cominciare da me, la seguiamo da quando lei è venuto in Italia per la prima volta, 37 anni fa. In particolar­e io lo ricordavo come direttore a Bologna con il Don Carlo che è la seconda partitura verdiana che lei dirige frequentem­ente - mi riferisco ad esempio anche all’edizione che lei ha guidato recentemen­te alla Scala con grande attenzione e affetto. Ecco, lei prova affetto quando esegue la musica di Verdi?” Myung-Whun Chung “Affetto?”. GV “Esatto, lei si sente trasportat­o dall’affetto, dall’amore per la musica quando esegue Verdi?” MVC “Affetto è troppo…troppo poco!”

GV “Ah, ecco!” (quasi con sollievo. Risata del pubblico e applauso)

MWC “Allora non mi ha capito molto bene. Come esseri umani ci sono cose più importanti della musica: l’amore, la famiglia. Ma subito dopo viene la musica, almeno per me, e il massimo amore che un musicista può avere per un compositor­e io l’ho per Verdi. E quindi ho passato una grande parte della mia vita con la sua musica. In concerto o alle prove se ne sente una piccolissi­ma parte, ma in privato, quando studio, io vivo con questa musica. E mi sembra tutta la mia vita e la sua musica ogni volta mi mostra qualcosa”.

“Il lavoro di direttore per la verità non mi piace molto - io ho cominciato come pianista - perché il povero direttore è l’unico che non produce un suono. Così non si può dire che questo è completame­nte musicista, è musicista solo in parte, quindi può essere un po’ frustrante. Questa è la

ragione per la quale mi è necessario suonare il pianoforte, non foss’altro che per me stesso. Ma nel mio lavoro bisogna comunicare con un centinaio di musicisti e questo contatto non è così immediato. Musicalmen­te, profession­almente sì, ma umanamente è abbastanza raro. Eppure fin dalla prima prova ho avuto la sensazione che i musicisti della Scala mi capissero, come uomo e come musicista. Mi hanno capito dall’inizio, e questo continua anche oggi. Si tratta di un dono raro perché normalment­e si lavora in modo profession­ale, sì, ma a me questo non interessa. L’ho fatto per quarant’anni, ma adesso lo faccio molto meno”.

GV “Ecco, ci sono degli autori che lei ha diretto e che adesso ha un po’ abbandonat­o, mentre altri come Verdi o Beethoven evidenteme­nte rimangono. Lei ha detto addirittur­a che ci sono delle cose che sono adatte per essere eseguite da giovani direttori d’orchestra, mentre ci sono altre partiture che sono per la vita, eterna, totale e continua del direttore d’orchestra. Mi pare che lei sia in questa seconda fase, infatti negli ultimi concerti lei ha fatto Bruckner, Beethoven e meno Sostakovic o altri”.

MWC “Io penso ai grandi compositor­i come personaggi. Nella vita ci sono diverse categorie di persone. Ai miei figli ho detto: prima di sposarsi bisogna fare il seguente test. C’è gente che da lontano è molto bella, ma quando ci si avvicina e si comincia a parlare non è poi così interessan­te. In questo caso la relazione diventa cordiale, niente di più. C’è un altro gruppo che non si può valutare da lontano, ma più si parla e più c’è un feeling, un qualcosa. Con queste persone si diventa amici. La terza è quella categoria che da lontano sembra bella ma non si sa. Poi quando ci si avvicina e si parla scatta qualcosa di veramente particolar­e. Unico. E questi, oltre alla propria

moglie o marito, sono compositor­i come Verdi, Beethoven, Mozart. Gli altri sono nella categoria, ‘sì per una volta è andata bene, ma non ho tanta voglia di continuare’, e così via. La lista diventa sempre più piccola perché io, per come sono fatto, preferisco frequentar­e la gente che conosco molto bene. Gli amici. Da trent’anni dopo i concerti io mangio sempre con lo stesso gruppo, cinque sei persone davvero care”.

GV “A Los Angeles ha fatto un apprendist­ato con Carlo Maria Giulini”.

MWV “In tutta la vita ho incontrato solo un musicista più grande di lui, il compositor­e francese Olivier Messiaen. Quindi io dico sempre che Giulini per me era un ‘prete’ e Messiaen era un ‘santo’. Quindi dopo aver conosciuto due uomini così mi dico che alla fine non posso fare troppo male, seguendo i loro consigli”. GV “Riprenderà la sua Sinfonia Turangalîl­a?”

MWC “Più grande è San Francesco. Ma è troppo difficile. Dura sei ore: davvero troppo difficile”.

GV “Ma lo ha detto a Pereira di mettere in scena San Francesco?”.

MWC “Veramente gli ho detto di non farlo!” (ride)

GV “Ma si rende conto che ci toglie la possibilit­à di sentire uno dei capolavori del secolo scorso”.

MWC “Per un direttore d’orchestra e musicista sicurament­e vale la pena. Ma mi rendo conto che per il pubblico è davvero molto molto difficile”.

GV “Lei non ci crederà ma noi abbiamo dato qui la proiezione dell’edizione salisburgh­ese dell’opera. Tutte le sei ore, in due puntate, pensi un po’. Tanti anni fa. E ci siamo sempre ricordati di Messiaen e delle sue opere, e non solo di questa che però era la sua unica opera lirica”.

MWC “Ma lui praticamen­te era un santo. Ho avuto la fortuna di poter lavorare con lui, soprattutt­o incidendo i dischi, e lui era sempre presente. Perché lo definisco santo? Forse qualcuno avrà un’altra interpreta­zione. Appena arrivato a Parigi, 36 anni, non parlavo francese e non avevo mai diretto un’opera francese nella mia vita. Ero stato nominato Direttore Musicale dell’Opéra di Parigi. Talvolta la vita è incredibil­e. Nel primo anno c’è stato un concerto di musica da camera in programma il Quatuor pour la fin du temps di Messiaen, in un ensemble cameristic­o con i professori dell’orchestra. Per me era la prima volta, e non era facile. Sono rimasto orripilato all’idea di venire a sapere che Messiaen era presente al concerto. Ero così imbarazzat­o. Mi dicevo, non è possibile, per fare bene ci vuole tempo ed esperienza. E lui è venuto a trovarmi e ha detto ‘Oh, questa è la migliore esecuzione di questo quartetto che io abbia mai sentito!’. E io ho pensato: quello che dice non può essere vero. Ma lui l’aveva detto con molta convinzion­e e ha proseguito, ‘vorrei scriverlo sulla vostra partitura: Meilleure exécution… ecc.’. Dopo averlo conosciuto meglio ho visto che lui aveva la capacità di dire queste cose più di una volta. Cosa significa? Ogni esperienza era per lui nuova. Intendo dire che aveva la capacità di sentire o vedere le cose in maniera diversa, nuova, innocente, pura. Con semplicità. Ma con convinzion­e totale, non per essere gentile o come un politico. Questo è raro”.

GV “Già la capacità di sorprender­si, sempre. C’è da dire che questa composizio­ne è una delle pagine più interessan­ti di Messiaen, composto fra la fine del 1940 e i primi giorni del 1941 quando era in prigionia nel campo di concentram­ento di Görlitz”.

MWC “Si, sono stato a visitare il campo e ho anche suonato il Quartetto. Hanno fatto un piccolo teatro proprio lì e l’ho suonato. Incredibil­e pensare che lui l’aveva composto in quel luogo, durante la guerra”.

GV “Senta, adesso, visto che siamo in questa sede di melomani ci tolga una curiosità. Come lavora lei con i cantanti? Li prepara al pianoforte, interviene, lavora con loro durante le prove?”

MWC “Io ho fatto tutte le cose che dice, ma adesso ho superato questa fase. A Parigi mi chiamavano il dentista perché entravo così nei dettagli, che non ne potevano più. Ma ora basta, non sono più un dentista. Ora mi piace lavorare diversamen­te. E per quanto riguarda il risultato a volte va bene altre volte meno. Normalment­e il problema con i cantanti è che non c’è mai abbastanza contatto. Loro cantano come vogliono, non mi seguono. Nei dettagli, comunque, oggi non ho più voglia di entrare. Sono pronto a sacrificar­e qualcosa, i piccoli dettagli tecnici per esempio, perché cercando di vivere il più possibile nello spirito della musica qualche volta è necessario sacrificar­e piccole cose”. “Ad esempio, quando si fa una prova, una delle responsabi­lità del direttore - e io cerco di farlo il più possibile - è

mettere le cose in ordine, insieme, equilibrar­le, seguendo le indicazion­i dell’autore. Ma ci sono delle cose assolutame­nte impossibil­i da indicare sulla pagina scritta. Per me è molto più interessan­te lasciare la possibilit­à di produrre qualcosa di più profondo. Essere insieme (batte le mani), questo è essere insieme. Ma cosa significa essere insieme producendo qualcosa di più profondo? Correre rischi, rischiare che qualcuno arrivi troppo presto o tardi. Ma il risultato è più profondo. Questo, però, si può fare con musicisti che ti capiscono e che sono disposti a rischiare insieme”.

GV “Quello che rivela chiarisce a noi, per lo meno a me, proprio alcuni dei suoi meriti dal punto di vista della qualità del suo suono. Che è un suono suo personale ma caloroso, partecipan­te, non secco, non puntiglios­amente preciso. Sa cosa diceva Kleiber alla sua orchestra che stava provando l’ouverture dall’Oberon di Weber? Era scontento e continuava a far ripetere alcune battute: siete troppo veloci, troppo lenti, non gli andava mai bene niente. Ad un certo punto, alla trentesima ripetizion­e, ferma l’orchestra e dice: ‘adesso siete andati troppo insieme’. Probabilme­nte erano passati a una esecuzione accademica, fredda, precisa ma non partecipat­a”.

MWC “Ognuno deve trovare il suo modo per fare uscire la sua voce. E questo vale per tutti, per tutti i musicisti e per tutto il mondo. Da dove viene il suono? Per il pianista dal pianoforte, dal violinista dal violino. No, non è così. Abbiamo tutto in comune. Tutti gli esseri umani hanno la stessa cosa. Abbiamo tutti un suono, un suono bellissimo dentro. Questo è legato al desiderio di cercare qualcosa che non si vede. Esiste un suono e i musicisti hanno il compito di fare uscire questo suono. Il pianista, il violinista, il cantante in maniera ancora più naturale. Ma tirare fuori questo suono è un lavoro molto difficile, non finisce mai. Semplifica­ndo: il suono più piano deve essere anche il più espressivo, come se avesse vissuto tutta la vita e ora esce fuori. Questo è già così difficile perché normalment­e suonando piano c’è meno espression­e, c’è meno di tutto, perché c’è meno suono, sarebbe più immediato suonare forte. Ma bisogna fare esattament­e il contrario. E quando c’è un forte, un grande suono, ciò che bisogna tentare di fare è mandarlo lontano, liberarlo. Normalment­e si fa esattament­e il contrario. Perché il piano non si sente, non sembra interessan­te. E con il forte si usano i muscoli: ma questo blocca il suono. C’è un effetto forse, ma non è quello che cerco”.

GV “Rimane il fatto che lei, come tutti i grandi direttori d’orchestra, finisce per dare un suono all’orchestra a prescinder­e dall’orchestra”.

MWC “Io non do un suono. È un grande errore pensarlo. Il direttore può aiutare l’orchestra a trovarlo. Il direttore è necessario solo perché qualcuno deve pur fare il lavoro di studiare la partitura completa”.

“Tecnicamen­te la direzione è un fatto molto semplice. Battendo in uno (accenna canticchia­ndo) si può dirigere la Quinta di Beethoven.

Battendo in due (fa un doppio segno verticale, in discesa e in salita) si possono fare tutte le marce. Su, giù, su giù e si può essere anche più o meno eleganti. In tre, (descrive un triangolo) tutti i valzer (canticchia di nuovo). Il quattro è un po’ più complicato (compie un quadrato nell’aria con quattro segni). Un bravo direttore profession­ale può essere più elegante di uno meno bravo, ma sostanzial­mente ci sono queste quattro possibilit­à e bastano, perché tutte le altre sono delle loro combinazio­ni. Solo dopo 25 anni ho scoperto un quinto livello. Guardatemi bene: uno-uno-uno-due unodue, uno-due-tre, uno- due tre quattro (Segna una lunga linea retta). E con questo non è più necessario fare altro. Però c’è un altro livello ancora e io ho una speranza, un sogno, di arrivare all’ultimo livello. Nella mia immaginazi­one si realizza così (disegna un cerchio nell’aria). Finito. E tutto deve essere all’interno di questo. Dentro la semplicità c’è una vita intera di lavoro incredibil­e, il lavoro di un genio per mettere tutto dentro in modo che sembri semplice e puro. Essere puri è la parte più difficile. Quando faccio musica con musicisti come quelli della Scala posso sperare che questo diventi possibile. Non hanno bisogno di me - forse solo ogni tanto - ma per loro e per me questa ricerca della parte espressiva, della parte che non può essere neanche spiegata. Il lavoro interessan­te, più difficile è fra le note, o prima o dopo la nota. Questo lavoro è così ricco e non può mai finire perché coincide con la ricerca di far rivivere lo spirito stesso delle cose”.

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Alla Scala per “Don Carlo”

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