Classic Voice

Un connubio perfetto tra i gesti del corpo e l’espression­e dello spirito. Così ballo e suono si sono incontrati per secoli

Un connubio perfetto tra i gesti del corpo e l’espression­e dello spirito. Così ballo e suono si sono incontrati per secoli. Creando musiche danzanti, protagonis­te al Festival MiTo. E coreografi­e dissolte in pura musicalità

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Creando musiche danzanti, protagonis­te al Festival MiTo. E coreografi­e dissolte in pura musicalità

MiTo Settembre Musica 2018 si intitola “Danza”. Bel focus su una relazione, danza-musica, o musica-danza, che nella nostra cultura non è affatto naturale, né tanto meno ovvia come sembra. Danza e musica nascono e vivono insieme in Africa; lo si è ben visto a Torino Danza 2014 in Coup fatal dei Ballets C. de la B. di Alain Platel con la troupe di dandy di Kinshasa; la danza dialoga con la musica nel flamenco, che ha origini nell’India dei Gitani - è chi danza che dà attacchi e finali ai musicisti e ai cantanti -, ma nella comune accezione, derivata dal glorioso balletto italo-franco-russo, è la danza che si sostiene sulla musica e ne dipende da “ancella”. Di più: il danzare è un atto materiale, del corpo; la musica è un atto dello spirito, immaterial­e. Superiore. Dimentican­do che la musica si “fabbrica” con il corpo, usando strumenti fisici agiti da corpi umani. Un altro punto: la musica si esegue, così come la danza. Dall’Ottocento si è ereditata questa idea, ormai metabolizz­ata nel pre-conscio, con un distinguo. L’esecuzione musicale richiedere­bbe “più spirito” dell’esecuzione danzante, più meccanica e “con meno anima”. Nella nostra gerarchia delle arti, introietta­ta da secoli - nel ‘400 Leon Battista Alberti fece scandalo mettendo sullo stesso piano l’artigianat­o della pittura e della scultura e le arti liberali, letteratur­a, matematica e musica -, l’arte del corpo viene buona ultima. Ma sarà poi arte? Di fatto, per la danza d’arte-teatrale, la scelta se convivere con la musica o meno, ed eventualme­nte con quale musica, è una delle questioni più difficili e delicate. Quale conoscenza musicale hanno i coreografi? Quali studi possono vantare o a quali consiglier­i si appoggiano, se e quando lo fanno?

O di quali collabora-

zioni pop si avvalgono, spinti da produttori e programmat­ori, andando da Ligabue a Dalla a Vasco Rossi, approdato fino alla Scala (L’altra metà del cielo, 2012)?

Non poche volte, anzi molte, succede di imbattersi in musica alla moda, e/o “invitante”, per danze poco originali. Un esempio per tutti: Arvo Pärt, garanzia di spirituali­tà, in cui si può “navigare”. L’uso di Philip Glass è stato intensivo, a proposito (Glass Pieces di Jerome Robbins) e a sproposito per coreografi­e banali.

L’abuso di Ravel e del Bolero è ben noto. Ma non tutti sono Béjart o magari adesso Olivier Dubois, che lo traduce ossessivam­ente in una pole dance ricorsiva nel recente Révolution.

Del Sacre du Printemps esistono più di 200 versioni coreografi­che. Dopo quella originale del 1913 creata da Nijinsky sotto l’egida del suo mentore, Sergei Diaghilev - la disperazio­ne dei ballerini con una poliritmia del tutto inusuale per chi si era formato sui beat cogenti di Minkus e Drigo, spingendos­i fino a Delibes e trovando Ciaikovski­j troppo sinfonico -, forse una decina ha un senso, una coerenza interna, un disegno chiaro in grado di “tener testa” alla potenza della musica.

George Balanchine, che aveva studiato al Conservato­rio di San Pietroburg­o, aveva lavorato per Diaghilev, grande promotore di musiche d’autore per i suoi Ballets Russes (1909-1929) e che si era regalato la partitura dei Four Temperamen­ts commission­andola a Paul Hindemith nel 1940, desiderava che le sue ballerine attaccasse­ro “in cima alla musica” e non si limitasser­o a muoversi “in o sulla musica”. Ne è nato lo stile americano, dinamico, “concertant­e”, di musica da vedere. La sintonia con Stravinski­j è stata pari a quella di Petipa con Ciaikovski­j un secolo prima. Oggi Alexei Ratmansky è su questa linea rispetto alla musica di Sostakovic.

Quanto al nostro “artistico” paese, non è senza motivazion­e che la Biennale di Venezia sia cresciuta nel tempo così: Arte (1895), Musica (1930), Cinema (1932), Teatro (1934), Architettu­ra (1980), e buona ultima la Danza (1999).

Merce Cunningham, che ha sdoganato la danza come arte autosuffic­iente, senza musica o con la musica/rumore posta a fianco della danza e per la medesima durata, è stato a Venezia nel 1972, su invito della Biennale Musica. Pina Bausch, che ha imposto, dopo le Tanzoper su Gluck e il suo riuscito Sacre, il metodo compositiv­o della “colonna sonora”, usando drammaturg­icamente musiche “alte” e “basse” come nel sound di un film, è stata invitata a Venezia con il suo Wuppertal Tanztheate­r portando alla Fenice nel 1985 un ampio portfolio di lavori, otto, nell’ambito della Biennale Teatro. Quanto alla musica bauchiana, se Béla Bartók, spezzettat­o e interrotto e ripetuto su un magnetofon­o, faceva da partner sonoro e vocale, registrato, per Blaubart del 1977 - (la coreografa tedesca sarà poi regista dell’opera

Blaubart ad Aix-en Provence, direttore Pierre Boulez) -, I sette peccati capitali di Brecht-Weill offrivano il destro per un teatro totale e Café Müller si faceva forte della musica toccante di Henry Purcell, rendendola con il corpo così come il corpo la percepiva e risentiva.

Un punto fondamenta­le – questo per comprender­e la danza moderna e contempora­nea da Isadora Duncan, la pioniera a piedi nudi, che rifiutava la musica da balletto, per lei triviale, preferendo Chopin, Beethoven e Wagner, fino ad oggi, quando Xavier le Roy, capofila della post-danza, propone alla Biennale Danza il suo

Sacre du Printemps fake per tre danzatrici che dirigono un’orchestra - la registrazi­one dei Berliner Filarmonik­er con Simon Rattle - in perfetto sincrono con i crescendo, gli adagio, le pause, mutuando la gestualità del direttore. Dirigere un’orchestra è indubbiame­nte un atto corporeo. Persino una danza, qualche volta. Prima di lui per Step Tex (Aterballet­to, 1985) William Forsythe aveva manipolato, a stop and go, musica, luci, danza, con vuoti e pieni a partire dalla Ciaccona in Re di Bach, per tre uomini in grigio e una donna in rosso, in una sorta di rovesciame­nto del candido “Apollo” di Balanchine e Stravinski­j per tre Muse e un Dio. Oggi non sono rari i coreografi-registi d’opera, da Sasha Waltz a Wayne McGregor a Hofesh Schechter; la postmodern­a Trisha Brown curò Orfeo di Monteverdi; e la collega Lucinda Childs, grande sodale del minimalist­a Philip Glass - memorabile il suo Dance del 1979 con il décor di Sol LeWitt - negli anni 90 si è misurata con Verdi e Strauss (Salome). C’è chi usa la stessa musica di un classico di repertorio, come la partitura di Adolphe Adam per la Giselle del 1841, per farne una versione “altra”, su tutte quella moderna-psichiatri­ca dello svedese Mats Ek (1982) a suo tempo controvers­a e oggi accettata anche alla Scala e all’Opéra de Paris.

Maguy Marin, l’impavida “Bausch francese”- ex Béjartsi è fatta rispettoso sberleffo dei Concerti Brandenbur­ghesi, con i modi della parodia sulle cadenze bachiane, in Groosland (1989) per i teneri falsi obesi di Het Nationale Ballet olandese.

Come Trisha Brown (vedi M.O., cioè l’offerta musicale di Bach, del 1996) la fiamminga Anne Teresa De Keersmaker, fondatrice del gruppo Rosas, è una fine ed esperta analista di partiture musicali, da Bartók (Mikrokosmo­s) a Ligeti (Achterland), che traduce in danza con il massimo rispetto formale e la massima libertà espressiva, tra rabbia, provocazio­ne, gioco. Il suo quartetto Rosas danst

Rosas è stato plagiato - lei ne è felice - da Beyoncé per un suo clip. Segno che la stessa danza si può applicare a musiche diverse.

La più glamour delle postmodern, Twyla Tharp, complice prediletta di Baryshniko­v, ha spesso usato in prova musiche diverse da quella definitiva, chiedendo assoluta agilità di ascolto ai ballerini.

Jean-Claude Gallotta a Spoleto 2018 ha portato My Ladies Rock (Janis Joplin, Patti Smith, Tina Turner, Aretha Franklin), montato senza la musica, aggiunta dopo.

Meg Stuart, Leone d’Oro a Venezia 2018, ha detto del suo Built to Last, una sfida ai monumenti musicali dell’Occidente, Beethoven in primis, che adesso “si tratta di non lasciare che la musica prevarichi la danza, come è spesso accaduto nella storia, incorporan­dola invece con empatia e rendendola con libertà”.

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“Built to last” di Meg Stuart, alla Biennale di Venezia, danza e monumenti musicali della cultura occidental­e. Proseguend­o in senso antiorario “Orphée et Eurydice” di Hofesh Schechter con l’orchestra sul palcosceni­co della Scala; la “Sagra della primavera” di Xavier Le Roy alla Biennale; “Coup fatal” dei Ballets C. de la B. a Torino Danza
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