La San Francisco Opera affronta il tema dell’identità Usa rovesciando il romanticismo della Fanciulla pucciniana
La San Francisco Opera interviene nel dibattito sull’identità Usa. Un “Ring” e un’opera di Adams che distruggono il mito della California. Rovesciando il romanticismo della “Fanciulla” pucciniana
Con un “Ring” e un’opera di Adams che distruggono il mito della California felix
Tecnologia, sostenibilità, diritti civili, diversità: è il brand della California contemporanea, democratica e all’avanguardia. Eppure nella società californiana esiste una corrente neanche tanto sotterranea di tensioni razziali e profonda ineguaglianza economica. La complessità di questi temi è stata affrontata nella stagione operistica 2017/18 alla San Francisco Opera, il più antico teatro d’opera tuttora esi- stente sulla West Coast degli Stati Uniti che, dal 1923, continua a diffondere questa forma d’arte in California. Due produzioni d’alto profilo hanno rappresentato un momento di riflessione storico-politica sul mito californiano e sulla stessa cultura americana, con ampia risonanza di pubblico e critica: la messa in scena del Ring di Wagner con regia di Francesca Zambello e la prima mondiale dell’ultima opera di John Adams, Girls of the Golden West, con libretto e regia di Peter Sellars.
Il mito della California si è diffuso nell’epoca della corsa all’oro, il Gold Rush del 1849: la California rappresentava una terra di ricchezze naturali infinite e infinite possibili-
tà per chiunque avesse uno spirito intraprendente. Ma il “California Dream” si scontra con la realtà: le risorse naturali erano limitate; la California era una terra inesplorata per gli europei, ma non per le numerose popolazioni indigene stabilite lì da secoli, decimate dai colonizzatori; e l’arricchimento di pochi è avvenuto grazie alla schiavitù e allo sfruttamento di masse di lavoratori.
Ciò che è sempre rimasto vero, allora come oggi, è che il confine sul Pacifico degli Stati Uniti continua a rappresentare l’ultima frontiera, non solo in senso geografico: forte anche dell’essere la quinta potenza economica al mondo, di giorno in giorno in California si immagina e si crea un futuro fatto di energie rinnovabili e di celebrazione della diversità. E la spinta cruciale viene tanto dai leader politici quanto dalla stragrande maggioranza della popolazione del Golden State, ancor più nel periodo attuale in cui a livello federale primeggiano pericolose ideologie isolazioniste e antiquate.
Allo stesso tempo, il progresso californiano ha un dark side: insieme a vantaggi tecnologici ed economici, il boom della Silicon Valley ha portato a un’esasperazione dell’imborghesimento delle aree urbane, dovuta principalmente all’aumento del divario economico tra i lavoratori del settore tech (in maggioranza bianchi e con salari mediamente alti) e residenti storici della Bay Area che si trovano ad essere espulsi da case e quartieri. E alle difficoltà delle classi meno privilegiate, si aggiunge la tragedia di una popolazione sempre crescente di uomini e donne senzatetto.
È questo il contesto socio-culturale in cui si inserisce il Ring di Zambello, che la San Francisco Opera ha riproposto nell’estate 2018 in una co-produzione con la Washington National Opera, messa in scena per la prima volta come tetralogia completa nel 2011. La concezione di Zambello è incentrata su un immaginario prettamente americano. “In Rheingold,” spiega la regista in un’intervista a “Forbes”, “ci troviamo visualmente nell’Ottocento, e i paesaggi sono puri e splendidi come la California e lo Yosemite dei dipinti sfarzosi di Albert Bierstadt”. Siamo quindi proprio nell’epoca del Gold Rush: le Figlie del Reno, in costumi rustici ottocenteschi, cantano in acque limpide che, dopo il furto dell’oro, diventeranno torbide e colme di detriti urbani, pneumatici usati e sacchi di plastica strabordanti di rifiuti. Alberich, nel suo intento prima di sedurre le Figlie del Reno e poi di rubare il tesoro del fiume, entra in scena come un cercatore d’oro. “Quando incontriamo Wotan,” continua la regista, “lui è un gigante industriale, un Rockefeller, uno di coloro che hanno costruito
San Francisco. In Die Walküre, la seconda opera, il modello per Wotan è il Kane di Quarto potere e il set è basato sull’Hearst Castle [residenza privata californiana del magnate della stampa William Randolph Hearst, ispirazione per Quarto potere, nda]. Con Siegfried, ci spostiamo in avanti agli anni ’60 e ’70 quando l’America si stava disintegrando”. Infatti l’eroe stesso, Siegfried, vive in una roulotte decrepita sotto un cavalcavia mentre Alberich, smessi i panni da cercatore d’oro, è ora una figura radicalizzata e tagliata fuori dal mondo, che trascina un carrello pieno di armi attraverso un luogo desolato a metà tra discarica e fabbrica abbandonata. Nel capitolo finale, Götterdammerüng, siamo ormai in un mondo distopico dalle tinte totalitariste, che Zambello paragona all’immaginario apocalittico di Mad Max o Brazil di Terry Gilliam. Nella scena iniziale, il filo del destino che regge l’universo dei mortali e degli dei è un intrico di cavi, fibre ottiche e circuiti. E le tre Norne, disorientate nel groviglio della scheda madre, fungono da tecnici di laboratorio, finché i cavi non si spezzano in un corto circuito cosmico.
Il Ring di Zambello ha avuto un vasto successo di pubblico e critica, sia nella versione del 2011 che nel revival del 2018, tanto da essere stato ribattezzato “the American Ring,” proprio per la sovrapposizione dell’immaginario culturale americano sull’universo wagneriano. Tra le reazioni meno entusiaste, Anne Midgette del “Washington Post” ha lodato l’attenzione alla psicologia dei personaggi, lamentando allo stesso tempo una certa banalità interpretativa: “Se questo Ring si vuole definire ‘americano,’ lo è nel suo prendere tutto alla lettera, nell’obbedienza al testo, e nell’approccio tradizionale alla narrativa”.
In quest’ultima messa in scena del 2018, la tetralogia si è arricchita di ulteriori sfumature rispetto al 2011, un effetto dei drastici cambiamenti nel contesto politico e culturale americano. In particolare, numerosi critici hanno sottolineato lo slancio femminista della regia di Zambello. Sul “San Francisco Classical Voice”, Lisa Hirsch scrive: “nell’era del #MeToo, i comportamenti abusivi di Wotan, Alberich, Hunding e altri personaggi stabiliscono un tono inquietante appena sotto la superficie, al quale si contrappone la forza di Fricka, Erda, le Norne e, ovviamente, Brünnhilde”. L’importanza delle eroine del Ring è particolarmente evidente durante la scena dell’immolazione di Brünnhilde. È una precisa scelta di regia quella di lasciare il palco alle sole donne durante la creazione della pira funebre di Siegfried: Gutrune, le donne dei Ghibicunghi (fino a quel punto visibilmente maltrattate dagli uomini) e le Figlie del Reno. Nella pira funebre, invisibile agli spettatori, le donne gettano le armi degli uomini, i rifiuti (gli stessi che inquinavano il Reno), e il corpo di Siegfried. Dopo il sacrificio di Brünnhilde e la caduta del mondo degli dei, le luci si trasformano da apocalittici rossi e verdi a catartici toni dell’azzurro, e una bambina si dirige verso il pubblico. Tra i palmi delle sue mani, un piccolo arbusto verde, che la bambina pianta con calma e tenerezza, fino al calare del sipario. La responsabilità degli esseri umani rispetto alla distruzione dell’ambiente e la rielaborazione della mitologia californiana: questi stessi temi, enfatizzati nella lettura del Ring di Zambello, sono centrali nell’ultima opera di John Adams, Girls of the Golden West, presentata in prima mondiale nel novembre 2017 alla War Memorial Opera House, in una co-produzione con la Dallas National Opera e la Dutch National Opera. Al contrario del Ring di Zambello, ideato prima delle elezioni del 2016, Adams e il suo
collaboratore di lunga data, Peter Sellars, hanno elaborato il proprio lavoro in un clima politico molto diverso. L’opera prende il nome dal dramma di David Belasco, The Girl of the Golden West, sui cui è basata La fanciulla del West di Puccini. Il titolo ha creato confusione e tra critici e amanti dell’opera e, in effetti, l’opera di Adams ha poco a che fare con quella di Puccini. Al contrario del Golden West pucciniano, non c’è nessun romanticismo nella versione di Adams e Sellars: in scena vanno gli scontri culturali nella Sierra Nevada all’inizio degli anni 50 dell’Ottocento, e il risentimento razziale dei colonizzatori bianchi verso gli immigrati di altre etnie. Nell’episodio più violento dell’opera, la cameriera messicana Josefa verrà linciata pubblicamente per essersi difesa da un abuso sessuale. Sellars ha basato il libretto su documenti storici autentici, principalmente le lettere della scrittrice Louise Clappe (pubblicate con il nome di Dame Shirley, che appare nell’opera come una delle protagoniste e narratrici). Ma le fonti utilizzate sono numerosissime: tra di esse, il diario del giornalista e politico argentino Ramón Gil Navarro, il celebre discorso del leader abolizionista Frederick Douglass (“What to the Slave Is the Fourth of July”), racconti e autobiografie di schiavi fuggitivi, poesie di immigrati cinesi, e gli studi dei principali storici californiani dell’800.
La varietà delle fonti di quest’opera rappresenta sicuramente un punto di forza a livello ideologico: grazie alle prospettive eterogenee, il libretto sfida la narrativa canonica del mito del Golden West e ne costruisce una molto più complessa e problematica. Allo stesso tempo, e per lo stesso motivo, l’opera soffre di un’eccessiva frammentazione e della mancanza di un’idea centrale forte. Questi sono i motivi principali per cuwi il pubblico americano ha risposto in maniera critica, e a volte negativa, al lavoro di Adams e Sellars. Joshua Kosman, su www.sfgate.com, descrive l’opera come “disjointed” (sconclusionata, incoerente), criticando sia lo stile della partitura, sia la narrativa frammentaria: “È un ritratto del Gold Rush abitato da figure inconsistenti e portavoce politici senza spessore.” Sul “Los Angeles Times”, Mark Swed condivide alcune delle riserve sulla struttura dell’opera, ma sottolinea come i temi rappresentati, soprattutto riguardo al razzismo contro latinos, asiatici, e afro-americani, siano urgenti e necessari nel clima politico contemporaneo. Sul “New Yorker”, il celebre critico e scrittore Alex Ross ha proposto una prospettiva più sfumata, portando alla luce, insieme ai difetti formali, anche le complessità del lavoro. Egli definisce l’opera di Adams “un attacco frontale alla mitologia nazionale,” e un’opera che “mostra un passato che non è davvero passato, un mito vuoto ancora da elaborare.”
In Girls of the Golden West, la California viene cantata come una “terra fatta di stranezze, colpi di fortuna, e magia crudele” (“a land made up of strange things, of random luck, and cruel magic”). Come nel libretto di Sellars, il Golden West rimane un mito affascinante e potente, e con una storia intricata e spesso crudele. E le sfumature di questo occidente dorato sono difficili da raccontare in maniera critica e prendendo in considerazioni prospettive che, soprattutto in un genere per sua natura conservatore come l’opera, sono spesso marginalizzate. Con i loro punti di forza e debolezza, il Ring di Zambello e Girls of the Golden West sono emblematici della vitalità della scena operistica californiana e della volontà da parte di artisti e istituzioni culturali di affrontare temi complessi e urgenti, inclusa la rilettura dei miti fondanti della storia americana.