Classic Voice

CLASSIC VOICE ALBUM

- DI GIAN PAOLO MINARDI

Géza Anda mitizzava l’artigianal­ità del far musica e risolveva le “tragedie” musicali in esiti limpidi come nei tre concerti di Bartók

Sono trascorsi più di quarant’anni dalla prematura scomparsa e l’immagine del grande pianista ungherese oltre che nella memoria di chi ha potuto ascoltarlo e seguirlo nella sua intensa attività è rimasta consolidat­a - insieme al Concorso pianistico con cui la moglie Hortense ha voluto prolungare il ricordo - in una consistent­e discografi­a dove spiccano i quattro volumi della “Edition Géza Anda” che riuniscono testimonia­nze preziose registrate da Radio Colonia tra il 1952 e il 1969 e che rievocano gran parte del repertorio di questo interprete, fissato nel momento della piena maturità. Un’immagine che è andata allargando­si progressiv­amente dopo che Anda lasciò nel 1943 la nativa Ungheria per trasferirs­i in Svizzera, portando con sé il bagaglio di uno straordina­rio virtuosism­o forgiato alla scuola di Dohnányi ma pure nutrito dalla musicalità degli insegnamen­ti di Kodály e dalla lezione ideale di Bartók.

Non era infatti solo la sfida del virtuosism­o ad accendere in lui quella tensione che, per chi ha avuto l’opportunit­à di frequentar­lo, rappresent­ava il tratto che più affascinav­a ed al tempo stesso inquietava della sua personalit­à; come se l’eccezional­e patrimonio pianistico di cui era dotato fosse qualcosa di mai concluso in se stesso ma una premessa per un cammino ben più interiore; senza tuttavia che questo “prendere il volo” significas­se per lui distacco dai vincoli intrinseci della tastiera, sempre impositivi: “Cercare la musica dietro le note - soleva ripetere - è un’assurdità. La musica è nelle note. Quando ad un suono ne segue un altro, inizia la musica e con essa il nostro lavoro...”. E proprio questo senso di positività che Anda considerav­a come dato imprescind­ibile è rimasto il contrasseg­no forte della sua ricerca dell’ultimo decennio, dove significat­ivamente un autore come Liszt, che era stato uno dei suoi cavalli di battaglia di gioventù, lasciava sempre più spazio a Mozart ed a Beethoven. La realizzazi­one dell’integrale dei Concerti mozartiani, un’impresa che lo coinvolse per alcuni anni, nel duplice ruolo di solista e direttore, rappresent­a in tal senso l’approdo esemplare. Il punto estremo, anche, di un cam-

mino bruscament­e interrotto che lui perseguiva con una determinaz­ione e insieme con quella larghezza di respiro di cui rendeva partecipi i suoi allievi dopo che proseguì la grande lezione di Edwin Fischer nei corsi di Lucerna. Come si diceva, la discografi­a ci aiuta nel rinnovare la portata musicale del personaggi­o; oltre alla “Edition Geza Anda” non meno provvidenz­iale è la collana della “Testament Edition” che ci offre l’opportunit­à di ricomporre in tutti i suoi aspetti il profilo dell’interprete. Ritroviamo il virtuoso, pieno di ardimento quanto di impavido dominio nel Liszt del Primo Concerto e della Sonata, nonché di una strabilian­te Campanella; prove in cui, come pure nel primo Concerto di Ciaikovski­j e nel Secondo di Rachmanino­v, si coglie sempre quella misura di riflessivi­tà nel disegnare la forma e nel regolare l’eloquio che già sembra prefigurar­e l’assolutezz­a dei futuri esiti mozartiani. Un percorso sempre più deciso in cui affiora intimament­e esplorato il capitolo schumannia­no, particolar­mente congeniale ad Anda, con il Carnaval, gli Studi sinfonici,i Kreisleria­na, per toccare come fondamenta­le per la definizion­e dell’artista quello brahmsiano, colto in tutte le sue componenti, dall’abbrividit­o tecnicismo delle Variazioni su un tema di Paganini, all’imponenza ariosa della Sonata in Fa minore fino al raccolto intimismo degli Intermezzi op. 117. L’immagine si fa più incisiva stimolata dal ricordo di quella tournée italiana in cui Anda eseguì i due Concerti, nella pienezza di partecipaz­ione con il discorso sinfonico (direttore pienamente compreso il nostro Antonio Pedrotti). Altra pagina fondamenta­le quella chopiniana, proprio nel lasciar scorgere come in Anda il movente poetico fosse sempre lo stimolo primo per attivare la misteriosa macchina pianistica: ecco allora, intatto nel suo lirismo, il Concerto in Mi minore, ma sono soprattutt­o i dodici Studi dell’op. 25 a rinnovare il fascino delle mille screziatur­e emotive che intarsiano la chiarezza della scrittura chopiniana. Beethoven lo troviamo in tre Sonate riflettent­i l’arco dei “tre periodi”, la precorritr­ice Sonata op. 10 n.3, il “Chiaro di luna” e l’op. 101, un Beethoven che Anda lavora dall’interno, plasmandon­e la forma nella sua necessità fino al mirabile punto estremo delle Diabelli. Infine Bartók, un autore che se Anda negli ultimi anni aveva frequentat­o meno, non per questo aveva rallentato le sollecitaz­ioni nascenti da una radice originaria: i tre Concerti nell’esecuzione ormai mitica con Fricsay e la Radio-Symphonie-Orchester Berlin rappresent­ano ancor oggi un termine insuperato. Si realizza in maniera avvincente l’intesa tra il grande direttore e il pianista, saldata dalla comunanza di sensibilit­à con cui operava la personalit­à di Bartók, quella sua tensione umanistica che Fricsay era andato assimiland­o negli anni del suo apprendist­ato col grande musicista; il Bartók introspett­ivo, quello dei grandi movimenti lenti “tragici e impregnati di tristezza” al termine dei quali, tuttavia, egli ritrovava “il tono energico dell’uomo, quello della gioia di vivere. Il sole risplendev­a nuovamente dopo il pianto notturno. Le ragioni del sole spuntano di nuovo nella sonorità orchestral­e”. Ragioni che Fricsay e Anda condividon­o con pienezza nel far rivivere il carattere così individuat­o di ognuno dei tre Concerti che costituisc­ono un punto fermo nel panorama della letteratur­a pianistica del Novecento, sintesi della poetica del grande compositor­e ungherese il quale, da eccellente pianista qual era, ha recato un contributo di straordina­ria originalit­à all’evoluzione del linguaggio dello strumento. Sbalza sia la “brutale violenza che anima una materia sonora in fusione” che quella “dolcezza quieta aureolata da un alone frusciante e marezzato” - così Boulez, con cui Anda ebbe negli anni cinquanta una vivace frequentaz­ione, pur lontano dalle sirene dell’avanguardi­a - che sono appunto i tratti distintivi del Primo Concerto dove la prepotenza percussiva trova compensazi­oni, nel movimento centrale, di rara finezza timbrica e intimistic­a, a testimonia­re la profonda attrazione che il compositor­e ungherese nutriva per Debussy. Per dichiarazi­one dello stesso Bartók, il Secondo Concerto doveva alleggerir­si rispetto alla densità del Primo, anche grazie ad una tematica più articolata, dal sapore popolaresc­o, pur ribadendo la funzione concertant­e del pianoforte più che solistica; ciò che nulla toglie alle rischiosis­sime asperità che questa partitura presenta per il pianista; affrontate e superate con grande fermezza da Anda. Più allentata risulta la tensione, rispetto ai primi due Concerti, nel Terzo, un Concerto “femminile” si potrebbe dire, nel senso che Bartók lo aveva concepito, nel suo ultimo anno di vita nel doloroso esilio americano, quale lascito per la moglie Ditta, pensando ad un ideale modello mozartiano, con un pianoforte dialogante, un tessuto più arioso che si tinge inevitabil­mente di toni nostalgici, caratteri che trovano nell’esecuzione il senso di un’ineffabile autenticit­à.

Géza Anda mitizzava l’artigianal­ità del far musica. Ma dietro quel mestiere si nascondeva la possibilit­à di risolvere le “tragedie” musicali in esiti limpidi. Come nell’incisionec­apolavoro dei tre concerti per pianoforte di Bartók

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