Accademici (non) rigorosi
L’Akademie für Alte Musik è fedele alla prassi e agli strumenti dell’epoca, ma creativa nell’orchestrare le partiture bachiane
“Questi berlinesi dovrebbero traslocare a Monaco” scrisse qualche anno fa la “Süddeutsche Zeitung”; apertura notevole per chi conosce lo storico antagonismo fra Prussiani e Bavaresi. E loro li presero in parola. Dal 2012 alla stagione nella loro sede stabile di Berlino, il Konzerthaus am Gendarmenmarkt, i membri dell’Akademie für Alte Musik ne hanno aggiunta un’altra al Prinzregententheater di Monaco. Filologico e un po’ eretico fin dalla sua nascita nella Berlino est del 1982, questo ensemble a geometria variabile che, quando può, preferisce esibirsi senza direttore. Ai bonzi della Ddr l’idea di un complesso “storicamente informato” parve poco in linea coi dogmi del realismo socialista; però chiusero un occhio e nel 1987 investirono qualche marco per il loro debutto discografico su etichetta Eterna.
Vai a immaginare che in tre decenni i dischi venduti da “Akamus” (così per il fan-club) avrebbero superato il milione di copie, cifra astronomica per un’orchestra da camera dedita al barocco e al protoclassico su strumenti originali. Perdipiù senza troppi scrupoli di fedeltà alle radici pangermaniche: fra i bestsellers della loro discografia - dal 1994 in esclusiva con Harmonia Mundi France - a Bach e figli, Telemann, Händel, Mozart si affiancano gl’italianissimi Scarlatti senior, Vivaldi, Platti e Boccherini.
Da allora sono caduti Muri e Cortine; l’elenco di premi, tournées e collaborazioni eccellenti abbraccia ormai l’Europa, l’Asia e le due Americhe, ma ogni tanto un ritorno a casa può far bene alla salute. Tanto più se, come nel caso dell’Arte della fuga, la casa in questione è patrimonio condominiale dell’umanità. Tuttavia, a dispetto della loro ragione sociale, l’approccio dei berlinesi è ben poco “accademico”. Come ammette il Konzermeister di giornata Stephan Mai (tre ce ne sono, in carica a rotazione come in una libertaria Comune sessantottina), non si dubita che il gran monumento fosse pensato in origine per un qualche tipo di strumento a tastiera. Sì, però il vecchio Bach, fedele alla prassi degli Antichi Maestri tipo Frescobaldi, scriveva il contrappunto in partitura a righi separati; e poi s’arrangiasse pure l’interprete a coordinare linee, chiavi e diteggiature. Troppo forte la tentazione di partire da lì per tentare un’orchestrazione (non la prima e certo non l’ultima) per archi, fiati, cembalo e organo in combinazioni cangianti da un movimento all’altro. Il risultato è insieme didattico e rutilante: una trasparenza che prende per mano l’ascoltatore guidandolo a decifrare la complessità scientifica del pensiero bachiano senza derogare al primario compito artistico di delectando docere.
Ulteriore tocco di eresia musicologica lo dà l’introduzione, a traccia 1, di un corale arrangiato per sola orchestra e trasposto in re minore: quello che conclude la cantata Bwv 38 (“Aus tiefer Not”, traduzione in ecclesialese luterano del salmo “De profundis”). Ammissione di peccato o semplice analogia formale di temi “a specchio?”. Interrogata, l’ombra del Cantor non rispose. C.V.