DONIZETTI
L’ELISIR D’AMORE INTERPRETI J. Osborn, M. Sicilia, A. Esposito, I. Samoilov
DIRETTORE Francesco Lanzillotta
ORCHESTRA regionale delle Marche
REGIA Damiano Michieletto
ARENA Sferisterio
★★★★★
“Michieletto ci squaderna una spiaggia simil-romagnola, coprendo di sabbia candida l’enorme palcoscenico dello Sferisterio e piazzandoci sopra sdraio, materassini multicolori, ombrelloni con tavolinetto, docce, salvagenti di fogge pazzesche, rete per la pallavolo, palloni racchette pinne ed occhiali come nelle canzoni di Vianello”
Non opera buffa scacciapensieri con intermezzo sentimentalone per “la furtiva”, l’Elisir d’amore: commedia, invece. Che significa squarcio di vita vera capace di mescolare tenerezze e cattiverie, superficialità esibizionistiche e autenticità sentimentali, vissuto truffaldino e fatica del vivere: il tutto reso fluido e strepitosamente comunicativo dalla sublime sceneggiatura musicale, tirata a lucido da una grande direzione e una regia del pari grande che con essa fa blocco inscindibile. E qui sta la ragione fondamentale per la quale lo spettacolo di Michieletto, di per sé non nuovo (nasce sette anni fa a Valencia, per girare poi a Palermo e a Bruxelles), solo qui assume la sua più autentica statura, prima offuscata da direzioni non all’altezza. Lanzillotta presenta l’opera nella sua assoluta integralità: rischio calcolato (specie in contesto teoricamente “popolare”, se pure il termine ha ancora un suo riconoscibile significato), ma soprattutto pienamente giustificato. La riapertura di tutte le riprese e i da capo tanto nelle arie quanto nei concertati non appesantisce per niente la narrazione: la rilancia e l’arricchisce, invece, grazie alle sapienti variazioni introdotte non solo con perfetto stile ma con sapientissimo respiro teatrale, con la quadratura ritmica d’antica - e allora inevitabile - matrice rossiniana resa alla perfezione (e siamo all’aperto; e l’orchestra, quantunque non di primo piano, questo giovane ma già autorevolissimo braccio sa farla suonare con precisione mirabile) che si colora di tinte romanticamente più chiaroscurate, nelle quali lo scintillio geometrico dell’antico impianto si scioglie in quella sensitività allo stesso tempo lieve e profonda che è il più autentico marchio donizettiano. E poi la continua pulsione dinamica che pennella ogni snodo narrativo con colori uno più interessante dell’altro. E poi la pienezza canora fatta emergere solo là dove deve esserci, e che così dilaga con quell’effetto teatrale altrimenti annacquato per il troppo eccesso. E poi il sostegno continuo al canto, senza quella rigidità metronomica che l’asfissia, ma anche senza quel ricorso eccessivo al rubato che lo spampana. Michieletto ci squaderna una spiaggia simil-romagnola, co-
prendo di sabbia candida l’enorme palcoscenico dello Sferisterio (il cui splendido muro di mattoni porta appesa una gigantografia di spiaggia esotica tipo l’immancabile Santo Domingo sogno d’ogni ragioniere brianzolo) e piazzandoci sopra sdraio, materassini multicolori, ombrelloni con tavolinetto, docce, salvagenti di fogge pazzesche, rete per la pallavolo, palloni racchette pinne ed occhiali come nelle canzoni di Vianello. Popolando il tutto con fauna femminile e maschile anch’essa di foggia varia, dal macho tartarugato alla bellona scosciata, dalla coppia agée infastidita dalla caciara alla famiglia Brambilla in vacanza come da antica canzonetta. Di lato, il bar sulla spiaggia che inalbera sul tetto l’insegna - ovviamente in rosso fuoco - col nome della proprietaria Adina: che ha ingaggiato come bagnino un tizio di nome Nemorino reso un po’ imbranato dall’amore per lei, ma che molti tratti fanno invece intuire sia piuttosto sveglio. Adina è sexy e lo sa, non mancando di farlo notare a tutti civettando e sculettando: ma infastidendosi alle profferte timidone alla Peynet del dipendente, cui mostra di preferire quelle ben più concrete d’un quartetto di palestrati coi pettorali evidenziati dall’olio solare che fanno a gara per spalmare anche sulle sue ben esibite grazie. Una moltitudine di piccole, molto appropriate scenette tutte fatte recitare benissimo calibrandole sul fluire musicale (spettacolosa, l’aerobica collettiva messa in moto dal racconto di Adina: esercizi lenti durante la lettura, veloci durante gli interventi del coro che dell’elisir “della regina Isotta” esalta la “sì rara qualità”) rende onore alla gran tecnica d’un regista che sa cosa rara - come impiegare lo spazio scenico per ricreare un attendibile quadro realistico. Ma dentro al quadro, una regia vera fa prender vita a personaggi finalmente lontani dall’anonimo e interscambiabile stereotipo per scolpirli invece a tutto tondo. La sincera piena sentimentale di Nemorino ha subito uno spessore speciale nel poetico frame stop con lui al centro dell’occhio di bue che canta “Quant’è bella”: stendendo su quel mondo tamarro il velo di struggimento nel cui ben percettibile profumo sensuale possiamo subito riconoscerci. Così come cosa nostra è il Belcore sottufficiale di marina sbruffone e piacione, che corteggia non solo Adina ma tutte quante, imitato da tre suoi marinai che saranno gli irresistibili Tre Denti ingaggiati quale spogliarellisti nella festa d’addio al nubilato di Adina fin dalla barcarola di Dulcamara. Il quale è l’invenzione forse più geniale dello spettacolo. Arriva alla guida d’un Suv su cui viaggiano anche quattro bellone, a piazzare alla luce del sole lattine di “Elixir full energy”, ma sottobanco assai più redditizie bustine estratte dal suo nero marsupio da cui non si separa mai: truzzo che neppure il più laureato degli Amici della De Filippi, scatenato imbonitore che farebbe fare la figura della riservata alla peggiore Vanna Marchi, epitome perfetta d’uno dei più tipici sottoboschi esistenziali della nostra epoca. Di questo personaggio, Alex Esposito dà un’interpretazione scenica e vocale paradigmatica.
Che intanto, quella pestifera aria d’entrata - resa ancor più problematica da una gestualità quasi acrobatica - è proprio cantata, da cima a fondo, senza alcuno degli abituali trucchi coi quali sconfina nel parlato o nel cachinno. Poi il timbro bellissimo, esaltato dalla gran tecnica che alla linea vocale dona morbidezza, omogeneità, compattezza e scorrevolezza tanto strepitosa da non far quasi accorgere di quanto alta sia la scrittura (sono 41 i mi acuti, e 30 i re, tutti da emettere a voce piena nell’ambito d’una velocità mozzafiato), si piega a un certosino eppur mai calligrafico lavoro sulla parola. Che a ognuno degli innumerevoli sostantivi e aggettivi sciorinati anche nell’ambito di vertiginosi sillabati dona (col prezioso ausilio d’un accompagnamento nel contempo vaporoso e ritmicamente millimetrico) scolpitura perfetta e rilievo sempre diverso l’uno dall’altro, accompagnandoli con una gestualità debordante quantunque mai, neppure per un momento, inquinata da quelle antiche caccole - vocali e sceniche - incrostate su questo personaggio. Accanto a così colossale capolavoro, fanno degnissima corona tanto scenica quanto vocale il Nemorino debuttante ma già autorevole di John Osborn (voce non baciata dagli Dei ma linea vocale morbida, duttile, all’insegna di un’eleganza sempre d’accattivante comunicativa, apice una cesellatissima “furtiva” premiata da pressante ed esaudita richiesta di bis); l’Adina scatenata, fascinosa, musicalissima di Mariangela Sicilia; il Belcore molto macho ma anche assai ben cantato di Iurii Samoilov; la Giannetta deliziosa di Francesca Benitez; il coro guidato da quel mago che sempre si dimostra Martino Faggiani, infine, che il demiurgo Michieletto tramuta in schiera di grandissimi attori.
Per somma fortuna, Rai 5 s’è collegata e ha già trasmesso l’eccellente ripresa: imperativo renderlo un dvd commerciale da piazzare subito in cima al catalogo video ma anche audio donizettiano.