VERDI LA TRAVIATA
INTERPRETI S.Jicia, I.A.Rivas, L.Salsi
DIRETTORE Keri-Lynn Wilson
ORCHESTRA Regionale delle Marche
REGIA Henning Brockhaus
ARENA Sferisterio
★★
“Con Salsi quest’aria si svela finalmente per quello che davvero Verdi ha voluto fosse: un agghiacciante ritratto della borghesia più ottusa e ben/malpensante, quasi uno stenografico riassunto espressivo dell’ambiente in cui si dibatte la flaubertiana Emma Bovary”
Ottima, quantunque svilita nel risultato da una scellerata scelta direttoriale, l’idea della nuova direttrice artistica del festival maceratese, Barbara Minghetti, di affiancare al Flauto magico da pugno nello stomaco (salutare e teatralmente efficacissimo) di Graham Vick; e all’Elisir riportato da Michieletto al suo più autentico status di commedia nel contempo tenera e graffiante: la ripresa di quella Traviata con cui, nel lontano 1992, lo Sferisterio allora retto da Claudio Orazi divenne uno dei luoghi teatrali più stimolanti di un’Italia che alla componente teatrale del teatro musicale solo di rado dedica l’attenzione viceversa indispensabile.
Traviata cosiddetta “dello specchio”. Per via della gigantesca parete specchiante (22m. x 12) che, stagliata davanti alla naturale scenografia costituita dall’enorme parete di mattoni, si solleva sopra teloni dipinti srotolati sul palcoscenico: riflettendone il disegno ora di foto osé ottocentesche, ora di utopistico sogno d’evasione rappresentato da facciata di casa campagnola con successivo verde prato in fiore, ora di interno domestico medio-borghese, ora infine di agghiacciante e buio nulla in cui termina la parabola di Violetta e in cui, sollevandosi del tutto lo specchio, ne diveniamo partecipi e quindi correi anche noi del pubblico. Un tratto scenico, questo del sommo Josef Svoboda, capace di farsi per se stesso compiuta regia: riuscendo (quasi) a occultare come vera regia non sia mai stata realizzata da Henning Brockhaus. L’attuale moglie del patron del Metropolitan, Peter Gelb, è un metronomo vivente e per giunta abbastanza impreciso: monotonia esasperante, dinamica questa sconosciuta, pesantezza a pacchi, asfissia ritmica che rema costantemente contro al canto (un abominio, l’accompagnamento-killer a Violetta nel prim’atto), improvvisi deliri fracassosi – del genere scialo di piatti in primo piano, o gran rullare di timpani all’“Amami Alfredo” - introdotti forse per distrarre dalla tremenda, morchiosa palude espressiva in cui si mortifica un’orchestra che nelle due serate precedenti (in ispecie quella con Lanzillotta sul podio) era da altra faccia della luna. Dice dunque molto, circa la capacità espressiva di Luca Salsi, il fatto che nonostante fosse immerso in simile morta gora, il suo Germont sia apparso di statura storica.
Si sa com’è l’aria di Germont: da molti ritenuta noiosa come la pioggia, anche ai tempi di Verdi che tuttavia l’indicò in una lettera “tra le meno peggio che mi siano riuscite”. Chiaro dunque che la sua natura non sia di quelle già “fatte” dalla musica, ma abbia a definirsi con l’accento. Quella cantilena in apparenza sempre uguale, grigiastra, monotona, Verdi l’ha inzeppata d’un numero di indicazioni espressive eccedenti quelle di ogni altra: puntualmente piallate dalla tradizione tesa a evidenziare ogni sia pur minima possibilità di spiegare la voce all’acuto, Salsi le segue invece con cura puntigliosa aggiungendovi personale fantasia nel variare dinamica e agogica al fine d’illuminare ogni frase con dizione e accento resi una cosa sola, individuandone i termini chiave e riuscendo persino a trascinarsi dietro la macignosa bacchetta. Allora quest’aria si svela finalmente per quello che davvero Verdi ha voluto fosse: un agghiacciante ritratto della borghesia più ottusa e ben/malpensante, quasi uno stenografico riassunto espressivo dell’ambiente in cui si dibatte la flaubertiana Emma Bovary. Queste sfumature bisogna leggerle, si capisce, e bisogna soprattutto saperle tradurre in fraseggio. Prima di Salsi, io le ho ascoltate solo da Sesto Bruscantini, una vita fa: ritrovarle, e per giunta valorizzate da timbro così bello, linea vocale così morbida e legato così saldo, è stata un’esperienza da conservare gelosamente nella memoria d’un devoto verdiano quale m’illudo di essere.
Gli altri due non sono al suo livello, ma neppure sono indegni di stargli accanto. Salome Jicia è molto a disagio, come dicevo, nel prim’atto, “però migliora” nel prosieguo:Violetta è nelle sue corde d’artista, ma molto meno in quelle della cantante. Ivan Ayon Rivas non ha ancora trent’anni e l’evidente immaturità espressiva non è sempre compensata dalla generosità (la famigerata “voce verdiana”, si sa o si dovrebbe sapere, è faccenda di fraseggio e lavoro sulla parola molto più che di esuberanza vocale) d’una linea senz’altro bella e tecnicamente in ordine, ma di accento abbastanza risaputo e generico.