HÄNDEL, LEO E ALTRI
RINALDO INTERPRETI T. Iervolino, C. Remigio, L. Castellano, F. Fernandez-Rueda, F. Ascioti
DIRETTORE Fabio Luisi
ORCHESTRA La Scintilla
REGIA Giorgio Sangati
CORTILE Palazzo Ducale
★★
“Mica male, l’idea di singolar tenzoni canore. Viceversa delusa da gestualità piatta e uniforme, circoscritta a gran camminate voltate e ritorno, con ben pochi segni distintivi tra i vari personaggi”
Comunissima nel Settecento, ma sopravvissuta fino ai primi dell’Ottocento, la pratica del cosiddetto “pasticcio”, ovverosia un’opera ridotta a scheletro da rivestire con musica proveniente da fonti anche le più disparate (quando va bene dello stesso autore, operazione spesso condotta da lui medesimo; altrimenti, brani da opere talvolta nemmeno coeve, operazione anche in tal caso condotta dall’autore dello scheletro oppure da un altro): senza contare quanto gli autori (vedi Rossini, grandissimo riciclatore di se stesso) riproponessero pari pari loro brani in opere successive. Lo stesso Rinaldo, primo grande capolavoro di Händel e sua chiave d’accesso ai palcoscenici inglesi su cui costruì la propria fama, è infarcito di brani tratti di sana pianta da contesti assai diversi che peraltro “funzionano” talora persin meglio. Ma Rinaldo fu “pasticciato” ben di più allorché il castrato Nicola Grimaldi detto Nicolino - il protagonista londinese - si portò la partitura a Napoli dandola in mano al giovane compositore pugliese Leonardo Leo, che sostituì un buon terzo delle arie händeliane con brani propri: e tutti i cantanti scritturati per la progettata rappresentazione napoletana inserirono poi - altra pratica consolidata, che andò avanti per un pezzo - diverse loro “arie di baule”, ovvero brani espressamente composti per le loro specifiche qualità vocali, che meglio potevano quindi risaltare. Né basta: essendosi a Napoli, altra usanza quasi imprescindibile era l’inserimento nel corpo di un’opera seria di un paio di personaggi comici che svolgono una propria storia: in Rinaldo a Napoli compaiono dunque i servitori Lesbina e Nesso, coi loro amori popolani a far da contraltare a quelli più nobili.
Questa partitura fu stampata (al pari del libretto ampiamente rimaneggiato dall’originale di Aaron Hill tradotto da Giacomo Rossi, noto da una copia al conservatorio napoletano): la si riteneva perduta, ed è riemersa dalla biblioteca d’un castello inglese, quantunque incompleta giacché mancano le arie di baule e tutti i brani di Lesbina e Nesso. Giovanni Andrea Sechi ha approntato un’edizione critica del materiale esistente, proponendo soluzioni proprie per le arie di baule: e il festival della Valle d’Itria di quest’anno ha deciso di metterla in scena, coi due personaggi buffi che non potendo cantare recitano il testo.
Funziona? Sì e no. Intanto, Fabio Luisi dirige bene come sempre, ma stavolta s’avverte che non è a casa sua: così da sprecare le ragguardevolissime possibilità della celebre orchestra La Scintilla (ben altrimenti duttile materiale per i molti specialisti che se ne sono avvalsi, a cominciare da Harnoncourt che la fece nascere in seno all’orchestra dell’Opera di Zurigo) in materia di varietà di contrasti - siano essi di tempi, sonorità, dinamiche, profili ritmici - alquanto livellati in una sorta di monotonia assai poco
teatrale, sorella peraltro di quella scenica. Entrambe trascurano un elemento che a mio avviso sarebbe stato importante in un’operazione siffatta: evidenziare con ogni mezzo - vocale, strumentale, scenico le differenze stilistiche e quindi espressive tra le musiche “di baule” e quelle di Leo, riconducibili all’area dell’opera napoletana, coi brani superstiti di Händel. La scena, poi, Sangati la popola con sei mimi e due attori del Piccolo Teatro (tutti bravissimi), mentre i cantanti li veste con abiti (di Gianluca Sbicca, non troppo ben fatti a dire il vero) che l’identificano con vari cantanti d’area rock, come Cher, Freddy Mercury, Elton John, Madonna e via dicendo. Giacché l’idea è quella di metaforizzare la conquista di Gerusalemme in quella del successo che fa diventare star alcuni eroi del rock: quello più pop per i cristiani, quello darkmetal per i turchi.
Mica male, l’idea di singolar tenzoni canore. E ricordando la splendida regia di Sangati per le goldoniane Donne gelose, viva era l’aspettativa: viceversa delusa da gestualità piatta e uniforme, circoscritta a gran camminate voltate e ritorno, con ben pochi segni distintivi tra i vari personaggi. Unica parziale eccezione Carmela Remigio, il cui carisma scenico funziona benissimo da sé oltre che cantare e “dire” di gran lunga meglio di tutti: ogni parola e fonema resi nitidissimi, lungo linee vocali di magnifica morbidezza e omogeneità, rette da musicalità strumentale. Gli altri le arrancano dietro. Teresa Iervolino, in aggiunta al limitato volume, ha dizione burgunda, acuti striduli, coloratura impastata anziché ben sgranata, gioco d’accenti al minimo sindacale: un Rinaldo che dell’esplosivo carisma d’un Freddy Mercury ha proprio niente. Il tenore Francisco Fernandez-Rueda massacra la parte di Goffredo (francamente, almeno un paio di arie di baule ce le poteva risparmiare) e solo un poco meglio è Dara Savinova nei panni del di lui fratello Eustazio: note assai più liete invece per l’Almirena di Loriana Castellano (sarebbe Madonna; ma ben improbabile, simile catatonia scenica!) e l’Argante di Francesca Ascioti, che potrebbero avviarsi a carriera ragguardevole.