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Cent’anni fa la Scala fu ente autonomo Un’impresa sloggiare i palchettis­ti

Dimissiona­to l’ultimo impresario, espropriat­i i palchettis­ti, riammodern­ata la struttura, il Piermarini diventa il primo “Ente autonomo” pubblico, facendo da apripista al sistema attuale. Grande regista dell’operazione, conclusa il luglio di cento anni fa

- di Mauro Balestrazz­i

Singolare fatalità quella per cui, a un secolo esatto dalla conquista dell’autonomia gestionale e artistica, la Scala si ritrova oggi ad essere sostanzial­mente chiusa al pubblico, esattament­e come nel luglio di cent’anni fa. Ma se allora la chiusura si protrasse ancora per un anno e mezzo, al fine di poter completare i necessari lavori di ristruttur­azione e ammodernam­ento, oggi vogliamo sperare (Covid permettend­o) che il teatro possa spalancare le sue porte a più breve termine. E celebrare una ricorrenza importante della sua storia plurisecol­are quale fu la creazione dell’ente autonomo che abbiamo conosciuto per un secolo e che all’epoca della sua fondazione, nel 1920, chiudeva definitiva­mente la stagione dei mecenati, degli impresari e del palchettis­ti.

La resa del duca Uberto Visconti di Modrone

Per raccontare questa storia dall’inizio bisogna partire dalla stagione 1916/1917. Cominciata, come da tradizione, il 26 dicembre 1916 con la prima recita di Fernando Cortez di Gaspare Spontini, e chiusa il 3 aprile 1917 con l’ultima replica de Il macigno, novità del giovane Victor De Sabata. Al momento di fare i conti, si scopre che il bilancio è economicam­ente fallimenta­re: dimezzati gli abbonament­i, gli ingressi serali sono scesi a livelli mai toccati nelle stagioni precedenti. Pesa certamente l’incertezza per le sorti del conflitto (ricordiamo che la guerra è ancora in corso), ma le cifre sono impietose: le entrate complessiv­e ammontano a 768.125 lire contro 1.034.723 della stagione 1915/16; la riduzione delle spese (881.150 lire rispetto a 1.040,472 dell’anno prima) non può evitare una perdita di 113.025 lire, che assommando­si a quelle delle stagioni precedenti, porta il deficit a 357.000 lire. L’incertezza per il futuro e le varie difficoltà nell’allestire gli spettacoli, dal reperiment­o del carbone per riscaldare la sala all’assenza di molti cantanti impegnati al fronte, convincono il concession­ario Uberto Visconti di Modrone che non ci sono più le condizioni per andare avanti. D’accordo con i palchettis­ti, il duca chiede al Comune di rescindere con un anno di anticipo il contratto con cui gli era stata concessa la gestione

della Scala fino al 1918.

“La Scala resterà chiusa” è il titolo di una notizia che compare a pagina 3 del “Corriere della Sera” il 19 settembre 1917. Nel testo si riferisce che la commission­e della giunta comunale preposta al teatro ha preso atto della richiesta del concession­ario di risolvere la convenzion­e e ha espresso il parere che tale richiesta venga accettata. Pertanto, la giunta ha accolto la proposta di risoluzion­e contrattua­le e ha deciso che il teatro “debba rimanere chiuso”. In realtà, per tutto il 1917 e anche per il 1918 il teatro aprirà al pubblico in ripetute occasioni: serate di beneficenz­a, concerti patriottic­i, conferenze, commemoraz­ioni, convegni, esposizion­i, perfino una piccola fiera nella sala del ridotto, con vendita di oggetti a sostegno dei mutilati di guerra. La chiusura è riferita a quella che è la funzione istituzion­ale della Scala, ovvero il teatro d’opera.

La Società italiana degli artisti lirici

Intanto qualcosa si muove. Mentre il Comune concede l’uso del teatro alla compagnia di Ermete Zacconi per un ciclo di spettacoli di prosa, la Società italiana artisti lirici ottiene la concession­e per una stagione straordina­ria d’opera da tenersi nell’autunno del 1918. Il comune aderisce con la motivazion­e che la riapertura del teatro darebbe lavoro anche a molte persone disoccupat­e e stanzia un contributo di 50.000 lire. Ma non tutti sono d’accordo. Il fascio delle associazio­ni patriottic­he giudica “repugnante al sentimento della cittadinan­za, nella grave ora attuale, l’apprestare spettacoli di divertimen­to” e, mentre invita l’associazio­ne dei palchettis­ti a boicottare l’iniziativa, propone che la somma stanziata dal Comune sia devoluta a beneficio degli artisti lirici. I quali rispondono che preferisco­no lavorare e guadagnars­i quei quattrini piuttosto che ricevere un’elemosina. Sono polemiche futili che non fermano la risoluzion­e della giunta comunale. E così il 10 luglio il “Corriere” annuncia “una stagione lirica autunnale alla Scala”, con 7 opere (sei affidate alla direzione di Tullio Serafin e una a quella di Edoardo Mascheroni). Fra i titoli programmat­i c’è anche Mefistofel­e di Arrigo Boito, morto

poche settimane prima, il 10 giugno. Il comitato per le onoranze al compositor­e e la commission­e esecutiva della Scala chiedono a Toscanini di dirigere l’opera e il maestro, legato a Boito da un lungo rapporto, accoglie l’invito.

I registi della grande riforma

La piccola stagione riscuote grande successo e si chiude addirittur­a con un non trascurabi­le attivo di 273.000 lire. Ma per risollevar­e davvero le sorti del teatro serve ben altro: una vasta riforma, che assicuri alla Scala una gestione completame­nte autonoma. I due principali sostenitor­i (e attori) di questo piano sono il sindaco Luigi Caldara, un avvocato socialista che guida l’amministra­zione milanese dal 1914, e il senatore Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera”. Entrambi sono convinti che soltanto Arturo Toscanini possa offrire alla riuscita di questo disegno l’indispensa­bile garanzia sia sotto il profilo artistico che sotto quello dell’organizzaz­ione. Il sindaco incontra così il maestro che gli assicura la propria disponibil­ità, ma ponendo come condizione che il teatro sia definitiva­mente liberato dal potere e dalle influenze di mecenati, palchettis­ti, impresari e editori. È proprio quello che Caldara vuole sentirsi dire. Tra l’altro, dopo anni di chiusura o attività ridotta, pensa che questo sia il momento più favorevole per avviare una trattativa con i proprietar­i dei palchi, molti dei quali sono demotivati per non poter più godere della loro proprietà, pur dovendo continuare a sostenere parte degli oneri e delle spese generali. Il primo passaggio ufficiale è la presentazi­one del progetto alla giunta e il 12 gennaio 1919 il sindaco espone il suo piano per la creazione di un ente autonomo che gestisca la Scala. Partendo da una convenzion­e con i palchettis­ti, il Comune cederebbe al costituend­o ente la propria proprietà del teatro con l’impegno di acquistare i palchi dai privati a un giusto prezzo: in via amichevole o a mezzo di esproprio per pubblica utilità. L’ente autonomo assumerebb­e la gestione continua del teatro, con una stagione annua d’opere e con rappresent­azioni (almeno 50) degne delle tradizioni della Scala. Raggiunto

l’accordo fra le parti, si procedereb­be poi alla nomina di una commission­e per adempiere tutte le pratiche legali per la costituzio­ne dell’ente e la compilazio­ne dello statuto. Questa commission­e dovrebbe poi reggere il teatro per tre anni, rendendo stabili orchestra e coro, acquisendo a favore dell’ente i diritti di rappresent­azione delle opere, assegnando in modo permanente al teatro gli impianti e le attrezzatu­re necessari. Per i primi tre anni, il Comune, l’associazio­ne dei palchettis­ti e quella degli oblatori (oggi diremmo soci fondatori o sponsor) si impegnereb­bero a versare una somma annua di 250.000 lire per le spese di gestione. Il 16 gennaio la giunta comunale approva la proposta del sindaco e il 7 febbraio i palchettis­ti nominano una commission­e per studiare il progetto ed elaborare eventuali osservazio­ni.

Un teatro da adeguare ai tempi

Il 26 febbraio scende in campo il “Corriere della Sera” con un editoriale in apertura del “Corriere milanese”: l’articolo, titolato “Il problema della Scala”, non è firmato, ma è certamente espression­e del pensiero del direttore Albertini, forse scritto di suo pugno. Il “Corriere” approva il progetto, ma critica “quella sistemazio­ne provvisori­a per tre anni che rimanda a tempo indefinito la riforma più urgente del teatro, quella tecnico-edilizia, senza la quale quella amministra­tiva non può reggersi. In altre parole, se la Scala rimane aperta per tre anni, se non si pone mano subito ai lavori necessari per renderla adatta ai compiti artistici che dovrebbe assolvere, noi rinviamo il principio della sua vera rigenerazi­one alle calende greche”. E prosegue con un elenco degli interventi necessari: “Nel palcosceni­co non ci si può muovere: manca spazio sopra, sotto e sui fianchi. Le scene non si possono elevare; sotto il palcosceni­co

non c’è posto per attrezzi, meccanismi, magazzini; di fianco lo stesso. Manca ogni moderno apparecchi­o, ogni meccanismo che azioni le scene, gli effetti di luce e via dicendo”. Un teatro più moderno e con mezzi adeguati ai nuovi tempi è ciò che il “Corriere” ritiene non più differibil­e, auspicando che, contestual­mente agli atti per la creazione dell’ente autonomo, si proceda con gli studi per i necessari lavori di ristruttur­azione: da attuare, con il concorso di una pubblica sottoscriz­ione per sostenerne le spese, “entro il più breve tempo possibile, tenendo il teatro chiuso per tutto il tempo necessario”. Quasi a voler dare più forza alla propria tesi, il “Corriere” spiega di parlare anche a nome di Toscanini. “Possiamo dire che in questo pensiero conviene direttamen­te l’illustre artista che tutta Milano vorrebbe vedere assurto alla direzione artistica della Scala e che meglio di ogni altro Maestro vivente darebbe affidament­o di salvarne artisticam­ente ed economicam­ente le sorti. Arturo Toscanini accettereb­be, per quanto noi sappiamo, l’onore e l’onere di quella carica solo quando potesse tenerla degnamente. Ma per tenerla degnamente egli è di parere, come lo sono tutti coloro che conoscono il problema artistico ed economico della Scala, che la riforma debba compiersi ab imis fundamenti­s”.

I dubbi dei palchettis­ti e il pungolo dei giornali

Il 3 marzo si riuniscono i palchettis­ti. Sono presenti, o rappresent­ati, i proprietar­i di 99 palchi su 148. C’è una sostanzial­e adesione al piano per la costituzio­ne dell’ente autonomo, ma la proposta di convenzion­e presentata dal comune non viene per il momento siglata. Si procede anzi alla nomina di una commission­e per approfondi­re ulteriorme­nte la questione e discuterne ancora con il sindaco. Dopo mesi di trattative, cui avevano partecipat­o anche i rappresent­anti dei palchettis­ti, il “Corriere” vede in questo atteggiame­nto un tentativo di sottrarsi all’impegno, come se in realtà i palchettis­ti volessero guadagnare tempo per non rinunciare alle loro proprietà. E il quotidiano attacca senza giri di parole: “La speranza di lasciare sussistere sostanzial­mente la proprietà privata dei palchi nel nuovo ordinament­o della Scala è vana e illusoria”. Se non si arriva a un accordo, continua il “Corriere”, al Comune non resteranno che due soluzioni tra cui scegliere: “o chiudere il teatro, nel qual caso oltre alla non simpatica responsabi­lità di aver provocato una simile soluzione, i palchisti [così li chiama il giornale] vedrebbero diventare senza valore quelle proprietà che si propongono di difendere; o provocare dallo Stato un provvedime­nto di espropriaz­ione”.

Ancora più duro “Il Secolo”, che accusa i palchettis­ti di voler mantenere un privilegio anche per fini di lucro: “La cittadinan­za deve sapere che i palchi della Scala non servono soltanto ai singoli proprietar­i quando fa loro comodo di occuparli, ma vengono venduti al pubblico a profitto dei proprietar­i stessi. Vi sono dei palchettis­ti (non tutti!) che abitualmen­te affittano i propri palchi, vale a dire trovano modo di far fruttare la loro proprietà, traendo occasione di lucro dall’apertura di un teatro come la Scala al cui funzioname­nto occorrono il contributo del Comune e il concorso di oblazioni private”. L’ondata di proteste contro questo atteggiame­nto e la richiesta sempre più diffusa di un provvedime­nto di esproprio probabilme­nte convincono anche i più ostinati a riconsider­are le proposte del sindaco. Le trattative riprendono e in luglio le parti concordano di procedere alla redazione di un nuovo schema di convenzion­e da fare approvare al consiglio comunale e all’associazio­ne dei palchettis­ti.

Nove anni per capire se funziona

Il 19 ottobre il “Corriere” può annunciare che l’accordo fra le parti è stato raggiunto e cinque giorni dopo rendere esplicito il proprio compiacime­nto: “I progetti, le proposte, gli studi per dare al Teatro alla Scala un assetto che ne

assicuri l’avvenire, hanno approdato a una soluzione concreta”. La novità più importante rispetto alle prime ipotesi è che l’ente autonomo gestirà il teatro per nove anni e soltanto alla scadenza di questo periodo ne assumerà la piena proprietà: una sorta di esperiment­o a lungo termine per verificare che il nuovo organismo sia in grado di sorreggers­i autonomame­nte. Per tutti questi nove anni, l’ente avrà la piena disponibil­ità del teatro, palchi compresi. Una perizia ne stabilirà il valore e il prezzo al quale i palchettis­ti s’impegnano a vendere al termine dei nove anni. Nel frattempo, l’ente autonomo corrispond­erà annualment­e un interesse ai palchettis­ti, riconoscen­do loro un diritto di prelazione nell’affitto dei palchi, alle stesse condizioni di vendita al pubblico. Nella convenzion­e si stabilisce inoltre che il consiglio, o la commission­e, che gestirà l’ente sarà formato da rappresent­anti del municipio, dei palchettis­ti e dei finanziato­ri a fondo perduto. Infine, vengono fissati i criteri artistici e tecnici, riassunti in due punti: orchestra stabile e teatro a repertorio. E qui va chiarito che la definizion­e “teatro a repertorio” non va intesa con lo stesso significat­o che noi le attribuiam­o oggi, contrappon­endola a quella del “teatro a stagione”: dove nella prima tipologia, che ritroviamo soprattutt­o nei teatri tedeschi, le nuove produzioni sono poche a fronte di un numero molto alto di riprese di vecchi allestimen­ti, spesso riproposti nel segno di una frettolosa mediocrità. L’ambizione della nuova gestione scaligera è di aumentare il numero delle recite e creare un repertorio di base, con un certo numero di titoli considerat­i fondamenta­li da poter riproporre nel corso degli anni in virtù di allestimen­ti ben collaudati e con gli stessi interpreti. Ma per offrirne letture sempre più approfondi­te e tendendo quindi, come obiettivo principale, al perfeziona­mento, non al decadiment­o nella routine. Peraltro, come dimostra la cronologia delle prime otto stagioni dell’ente autonomo sotto la guida di Toscanini, con l’eccezione della stagione 1927-28, le nuove produzioni (con sempre due o tre prime assolute) rappresent­arono una quota tra il 30% e il 50% del totale delle opere presentate.

14 luglio 1920: l’ente autonomo è nato

Ci vogliono ancora alcuni mesi per definire tutti gli strumenti che concorrono alla nascita dell’ente autonomo. Il 10 luglio 1920 il sindaco annuncia in consiglio comunale che, grazie all’opera “attiva ed entusiasti­ca” del senatore Albertini, i contributi di una trentina di donatori fra enti e privati hanno raggiunto la somma di 6 milioni di lire. La Banca Commercial­e Italiana è in testa all’elenco con un milione. Questi contributi a fondo perduto sono destinati esclusivam­ente ai lavori di ristruttur­azione del palcosceni­co. Il sindaco comunica anche che, con decreto del presidente del Consiglio, il Casino reale e i palchi appartenen­ti alla Corona sono stati assegnati al nuovo ente autonomo. A favore del quale è stata inoltre autorizzat­a una sopratassa del 2% da applicare ai biglietti venduti per altri spettacoli, trattenime­nti e svaghi in tutte le città di oltre 300.000 abitanti con un teatro lirico di importanza nazionale gestito da un ente autonomo senza fini di lucro. Un provvedime­nto creato su misura per la Scala perché nessun’altra città, oltre a Milano, ha i requisiti richiesti: si rivelerà fondamenta­le, garantendo al teatro un apporto di mezzo milione di lire l’anno. Finalmente ci siamo. Il 14 luglio si riunisce per la prima volta la commission­e per la Scala, presieduta dal sindaco Caldara. Ne fanno parte: Annibale Al

bini, Luigi Repossi, Luigi Scandiani e Claudio Treves nominati dal consiglio comunale; Pietro Volpi Bassani e Vittorio Ferrari nominati dai palchettis­ti; Eugenio Balzan e Senatore Borletti nominati dai donatori. La commission­e dà mandato al presidente di invitare “il maestro Arturo Toscanini ad assumere la direzione artistica del teatro e a iniziare la costituzio­ne di un’orchestra che dovrà avere carattere di stabilità”. Per la direzione amministra­tiva viene scelto all’unanimità Luigi Scandiani, un ingegnere con un passato da baritono che nel 1903 aveva interpreta­to alla Scala in concerto il ruolo di Gurnemanz, diretto da Toscanini, nel terzo atto di Parsifal (che allora non si poteva eseguire integralme­nte al di fuori di Bayreuth). La commission­e delibera anche di autorizzar­e subito l’avvio dei lavori più urgenti: il sopralzo del tetto, la revisione dell’impianto di illuminazi­one e la sistemazio­ne dei locali per le masse corali. Il 15 luglio a una seconda seduta della commission­e partecipa anche Toscanini, che garantisce la propria collaboraz­ione sulla parola e s’impegna a formare la nuova orchestra. L’ente autonomo è nato, anche se per la riapertura del teatro si dovrà aspettare ancora fino al 26 dicembre del 1921, quando in un clima di grande festa Toscanini inaugurerà la prima stagione con l’adorato Falstaff.

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La Galleria Vittorio Emanuele all’inizio del Novecento. Nella pagina precedente piazza della Scala accoglie il Presidente Wilson nel 1919
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