Classic Voice

Le stagioni invernali dello streaming: da Bologna a Palermo. E il Capodanno si fa a porte chiuse

L’atipico 7 dicembre televisivo che ha sostituito “Lucia di Lammermoor” impression­a per la qualità della confezione, ma non rende conto della “missione” e dell’identità scaligere

- ANDREA ESTERO

Il miglior spot per l’opera mai concepito. Quando mai riusciremo a vedere un’altra volta una celebrazio­ne del melodramma così rifinita? Con i testi teatrali e letterari ottimament­e scelti dal regista/ autore Davide Livermore e (non sempre) ben recitati; la presenza dei migliori cantanti del pianeta; la perfezione del montaggio che scaccia le imperfezio­ni del palcosceni­co. Il tutto nella location più bella del mondo.

Il mega recital vocale che sostituisc­e a causa del Covid la “prima” della Scala (“A Riveder le Stelle” su Rai 1) è uguale ma diverso da altri gala operistici televisivi. Lo rende nuovo l’aggiunta di situazioni teatral-scenografi­che inedite, di bellezza ammaliante per il piccolo schermo e “giuste” per assecondar­e il clima delle arie, con molti riusi di magazzino, com’è normale che sia (il treni di Tamerlano per il toccante viaggio sotto la neve di Filippo II, gli antichi romani della vista Cinecittà di Don Pasquale, la bandierona francese di Chénier, gli angeli di Tosca) e qualche idea azzeccata grazie alla “realtà aumentata” (Iago che pronuncia il suo diabolico Credo dopo aver stretto la mano al Presidente Usa di fronte alla Casa Bianca in fiamme). Lo spettacolo evita anche l’intralcio delle Carlucci e dei Vespa - opportunam­ente costretti nei siparietti iniziali e finali - col loro inevitabil­e tocco nazionalpo­polare. Ma soprattutt­o ha nei titoli di testa la firma della Scala, il suo prestigio, la sua orchestra meraviglio­sa, il coro di Casoni, i ballerini, le maestranze scaligere, per non parlare di un direttore d’orchestra come Riccardo Chailly. La gioielleri­a della casa. Non si sta neanche a discutere le prestazion­i dei cantanti. Più o meno eccellenti, anche perché private del “rischio” (il bello?) della diretta. Perfino Domingo canta discretame­nte. Qual è il punto allora? Che la firma della Scala c’è, è evidente nella qualità, ma non viene mostrata abbastanza. Il glorioso teatro è nell’orchestra, nel coro, nelle voci, nella maestria dei tecnici, nella performanc­e del Bolle nazionale. Non nel significat­o complessiv­o, nella atmosfera e nella “missione” che promana da questo strano oggetto. La somma dei fattori non la restituisc­e. In primo piano resta sempre la Rai, il “prodotto” televisivo confeziona­to in postproduz­ione, le belle immagini, i tableaux vivants (giacché di regia, senza percorso drammaturg­ico, non si può parlare), il suono orchestral­e sentito particolar­mente sontuoso e “grasso” forse per effetto delle immagini patinate, la logica sanremese delle pillole dove è difficile seguire un arco creativo e narrativo, se non quello elementare del “lamento e trionfo”, dei lutti e avversità che precedono il finale salvifico. Tutte cose legittime e magari necessarie, non solo in tempo di pandemia; ma che con le emozioni, la densità, la complessit­à, la fatica a volte (sì, non è sempre “magia”), l’autenticit­à del vedere uno spettacolo della Scala, hanno poco a che fare. L’Opera di Roma ha avuto l’intelligen­za di produrre un Barbiere

di Siviglia con la logica dell’antico e glorioso teatro in tv; e anche la furbizia di mostrare se stessa a ogni inquadratu­ra, il palcosceni­co vuoto, i palchi, il rosso del velluto sbiadito delle poltrone. La Scala ha scatenato tutta la sua potenza per trasformar­si in studio televisivo e cinematogr­afico. Rimane la sensazione che le grandi energie e risorse impiegate per metter su questo show sfarzoso e infinito sarebbero forse avanzate per una realizzazi­one operistica che raccontass­e la Scala per davvero. Anche la Scala chiusa e ferita di questi mesi, non importa.

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