Le stagioni invernali dello streaming: da Bologna a Palermo. E il Capodanno si fa a porte chiuse
L’atipico 7 dicembre televisivo che ha sostituito “Lucia di Lammermoor” impressiona per la qualità della confezione, ma non rende conto della “missione” e dell’identità scaligere
Il miglior spot per l’opera mai concepito. Quando mai riusciremo a vedere un’altra volta una celebrazione del melodramma così rifinita? Con i testi teatrali e letterari ottimamente scelti dal regista/ autore Davide Livermore e (non sempre) ben recitati; la presenza dei migliori cantanti del pianeta; la perfezione del montaggio che scaccia le imperfezioni del palcoscenico. Il tutto nella location più bella del mondo.
Il mega recital vocale che sostituisce a causa del Covid la “prima” della Scala (“A Riveder le Stelle” su Rai 1) è uguale ma diverso da altri gala operistici televisivi. Lo rende nuovo l’aggiunta di situazioni teatral-scenografiche inedite, di bellezza ammaliante per il piccolo schermo e “giuste” per assecondare il clima delle arie, con molti riusi di magazzino, com’è normale che sia (il treni di Tamerlano per il toccante viaggio sotto la neve di Filippo II, gli antichi romani della vista Cinecittà di Don Pasquale, la bandierona francese di Chénier, gli angeli di Tosca) e qualche idea azzeccata grazie alla “realtà aumentata” (Iago che pronuncia il suo diabolico Credo dopo aver stretto la mano al Presidente Usa di fronte alla Casa Bianca in fiamme). Lo spettacolo evita anche l’intralcio delle Carlucci e dei Vespa - opportunamente costretti nei siparietti iniziali e finali - col loro inevitabile tocco nazionalpopolare. Ma soprattutto ha nei titoli di testa la firma della Scala, il suo prestigio, la sua orchestra meravigliosa, il coro di Casoni, i ballerini, le maestranze scaligere, per non parlare di un direttore d’orchestra come Riccardo Chailly. La gioielleria della casa. Non si sta neanche a discutere le prestazioni dei cantanti. Più o meno eccellenti, anche perché private del “rischio” (il bello?) della diretta. Perfino Domingo canta discretamente. Qual è il punto allora? Che la firma della Scala c’è, è evidente nella qualità, ma non viene mostrata abbastanza. Il glorioso teatro è nell’orchestra, nel coro, nelle voci, nella maestria dei tecnici, nella performance del Bolle nazionale. Non nel significato complessivo, nella atmosfera e nella “missione” che promana da questo strano oggetto. La somma dei fattori non la restituisce. In primo piano resta sempre la Rai, il “prodotto” televisivo confezionato in postproduzione, le belle immagini, i tableaux vivants (giacché di regia, senza percorso drammaturgico, non si può parlare), il suono orchestrale sentito particolarmente sontuoso e “grasso” forse per effetto delle immagini patinate, la logica sanremese delle pillole dove è difficile seguire un arco creativo e narrativo, se non quello elementare del “lamento e trionfo”, dei lutti e avversità che precedono il finale salvifico. Tutte cose legittime e magari necessarie, non solo in tempo di pandemia; ma che con le emozioni, la densità, la complessità, la fatica a volte (sì, non è sempre “magia”), l’autenticità del vedere uno spettacolo della Scala, hanno poco a che fare. L’Opera di Roma ha avuto l’intelligenza di produrre un Barbiere
di Siviglia con la logica dell’antico e glorioso teatro in tv; e anche la furbizia di mostrare se stessa a ogni inquadratura, il palcoscenico vuoto, i palchi, il rosso del velluto sbiadito delle poltrone. La Scala ha scatenato tutta la sua potenza per trasformarsi in studio televisivo e cinematografico. Rimane la sensazione che le grandi energie e risorse impiegate per metter su questo show sfarzoso e infinito sarebbero forse avanzate per una realizzazione operistica che raccontasse la Scala per davvero. Anche la Scala chiusa e ferita di questi mesi, non importa.