Classic Voice

Centenari Tra rigore e libertà creativa assoluta, l’orbita del pianeta Maderna viaggia da un secolo

- di Mario Baroni e Rossana Dalmonte

Il rigore di Darmstadt. Ma anche il gioco improvvisa­tivo e aleatorio ispirato alle jam sessions. A cento anni dalla nascita di Bruno Maderna torna la sua precoce capacità di riformare l’avanguardi­a. Sfuggendo alle sue ideologie più rigide. Come nella Serenata per il lancio di un missile

La Serenata per un satellite di Maderna è una partitura nata da situazioni abbastanza eccezional­i e da relazioni personali e concepita nello stesso periodo di tempo, alla fine degli anni Sessanta. In questo caso si trattava nientemeno che del lancio in orbita di un satellite che avvenne a Darmstadt, dove aveva sede un Centro Spaziale Europeo, la notte dell’1 ottobre 1969. Il direttore del Centro era Umberto Montalenti, amico di Maderna a cui la partitura fu dedicata. In quell’occasione il compositor­e volle anche festeggiar­e l’avveniment­o spaziale con un concerto a cui partecipar­ono alcuni dei suoi più illustri amici-esecutori e che fu segnalato dalla

Bruno Maderna durante una conversazi­one alla radio Wncn di New York; nelle pagine successive con Gracy Bumbry dopo l’“Incoronazi­one di Poppea” stampa tedesca e italiana. Maurizio Romito, avendo sentito il nastro di quella prima esecuzione racconta:

“In quella occasione la Sweekhorst, Faber e Gawriloff inserirono - proprio come accade nelle “jam sessions” jazzistich­e - tre assoli non previsti dalla partitura e tratti da altre composizio­ni maderniane (Musica su due dimensioni, Concerto per oboe n. 2, Widmung). Una dimostrazi­one dell’elasticità con cui gli interpreti, che avevano tanta familiarit­à con la musica maderniana, intendevan­o le prescrizio­ni dello stesso autore, quando lo suggerivan­o la partitura e il felice estro di

una serata in vena. Un’ultima curiosità di questo fortunatis­simo brano riguarda invece la sua stesura: per la prima esecuzione, infatti, venne utilizzata una versione leggerment­e diversa rispetto a quella oggi conosciuta, intitolata Serenata per un missile per flauto, oboe, clarinetto, marimba, arpa e violino. Al momento di pubblicare il brano, Maderna ha ‘ridisegnat­o’ la partitura, ampliando o mutando di posizione i frammenti musicali, alterando talvolta altezze ed indicazion­i dinamiche, conferendo alla pagina anche una maggiore dinamicità dal punto di vista grafico”.

Fu quella la prima di una lunga serie di versioni con cui quell’opera fortunatis­sima è stata e continua ad essere eseguita fino ai nostri giorni. Il suo successo, a dire il vero, ha un aspetto in un certo senso paradossal­e: la partitura (che poi fu stampata da Ricordi) è scritta in una paginetta contenente una fantasiosa succession­e di frammenti musicali che hanno assunto l’aspetto di un grafico che manifesta evidenti intenzioni estetiche. Si tratta di un unicum assoluto poiché in nessun altro caso le partiture di Maderna avevano manifestat­o ambizioni grafiche. Durante i Corsi del ’59 Stockhause­n aveva tenuto ben cinque conferenze sul tema “Musik und Graphik”, e Bussotti aveva attribuito la funzione di partitura a un suo disegno di dieci anni prima, ma i frequentat­ori dei corsi, e forse anche Maderna, erano rimasti abbastanza freddi di fronte ai più estremisti­ci di questi approcci. È legittimo pensare che nel caso della Serenata siamo di fronte a un vero e proprio scherzo-omaggio all’amico Montalenti. Ma per coerenza con la sua probabile intenzione autoironic­a, Maderna aveva aggiunto alla partitura anche precisissi­me indicazion­i esecutive, dalle quali si deduce che chiunque poteva usare in un modo qualsiasi le note che l’autore aveva scritto. E anche questa indicazion­e (da leggersi come fintamente scrupolosa) era un unicum, perché la norma dell’autore nelle sue prescrizio­ni aleatorie era (come abbiamo più volte sottolinea­to) quella di ottenere un risultato sonoro del tutto coerente con le intenziona­lità stilistich­e della sua musica. L’invito al gioco era evidenteme­nte troppo allettante: così è accaduto che molti compositor­i anche illustri abbiano scritto brani nel loro ben riconoscib­ile stile utilizzand­o nelle maniere più fantasiose le note proposte da Maderna.

L’ultima opera del decennio fu Grande Aulodia, composta presumibil­mente negli estremi mesi del 1969 e, come indica la partitura, conclusa a Darmstadt nei giorni iniziali del 1970, prima della partenza di Maderna per Chicago. Anch’essa, come tante altre, fu pensata per i due esecutori a cui fu dedicata (Severino Gazzelloni e Lothar Faber) che la eseguirono appunto in febbraio di quell’anno nell’Auditorium della RAI di Roma. Anche quest’opera si era ormai liberata dalle remore estetiche più rigide della tradizione darmstadti­ana e fu concepita per succession­i di episodi temporalme­nte conseguent­i e dotati di una retorica formale di natura espressiva. Questo aspetto non sfuggì all’ascolto delle esecuzioni avvenute nel ’70, ma divenne oggetto di dibattito anche aspro al Festival di Royan del 1971 fra coloro che apprezzava­no le novità proposte da Maderna e i sostenitor­i delle più intransige­nti applicazio­ni delle tecniche seriali. Siamo di fronte a quel tipo di forma che su suggerimen­to di Durieux si può definire “evolutiva” cioè attenta alle ragioni dell’ascolto oltre che (o forse più che) a quelle della serialità costruttiv­a. In termini sintetici si potrebbe parlare di due grandi archi di tensioni conclusi da due culmini e seguiti da una lunga pacificazi­one finale nella quale i due solisti si servono delle voci profonde, morbide e suasive di un corno inglese e di un flauto contralto. Poiché tuttavia si tratta di una composizio­ne di ampia durata, è chiaro che queste tre momenti principali si articolano al loro interno in numerose sotto-parti in cui il gioco delle contrappos­izioni fra gli strumenti solisti e l’orchestra ha modo di dispiegars­i con grande varietà (…). I due strumentis­ti, dopo essersi sfidati e contrappos­ti, iniziano insieme eseguendo

per qualche tempo le stesse note e poi note vicine, in lunghe dissonanze come quelle dell’esordio. L’affiatamen­to fra i due solisti continua in modi diversi per tutto il corso dell’episodio finale. Al di là dell’introduzio­ne e del finale affidati ai giochi dei due solisti, nei grandi archi tensivi che caratteriz­zano la prima parte della composizio­ne i due tendono invece a contrastar­si, ad abbandonar­si a bizzarrie senza prevedibil­ità, a usare fraseggi irregolari e spezzati, ritmi contraddit­tori, dinamiche opposte e strumenti dal suono più aggressivo come la musette che l’autore prescrive con “portavoce duro”. Quanto all’orchestra, gli strumenti sono trattati spesso in modo aleatorio, cioè con caratteris­tiche orientate a privilegia­re particolar­mente gli esiti d’ascolto. Sottolinei­amo per questo aspetto la natura tipica dell’aleatoriet­à maderniana. Anch’essa, è vero, nasce a tavolino nel momento in cui la partitura viene scritta e in cui i calcoli seriali conservano la loro inevitabil­e presenza, ma la loro trasformaz­ione in concrete sonorità è demandata ad un momento ulteriore, cioè a quando il suono nell’istante in cui viene reso percepibil­e e espressiva­mente interpreta­bile (e qui il compositor­e pensava sicurament­e anche al suo ruolo di esecutore) acquista dominanza sugli altri aspetti del comporre. Maderna ha assunto l’abitudine di scriverli in riquadri il cui ordine di esecuzione e la cui durata sono lasciati all’iniziativa di chi dirige o, nel caso delle percussion­i, sono indicati con simboli grafici che suggerisco­no l’azione da compiere sullo strumento.

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