Classic Voice

Metamorfos­i Vanessa Benelli Mosell, da Stockhause­n all’opera trascritta per pianoforte: “E ora voglio dirigere”

Vanessa Benelli Mosell fa risuonare l’opera sulla tastiera del pianoforte. E scova un raro Wittgenste­in che rilegge Puccini per la mano sinistra. Sognando la direzione d’orchestra

- di Paolo Locatelli

Cresciuta sotto la buona stella di Stockhause­n, di cui fu allieva, Vanessa Benelli Mosell ha fatto un percorso a ritroso che l’ha condotta con il suo ultimo disco, “Casta Diva” (il quinto per Decca Italia) a quello che Dallapicco­la definiva il periodo epico della storia italiana, il “secolo del melodramma”. Un disco che rinnova un amore antico, nato parallelam­ente a quello per la musica strumental­e.

“Ho ho iniziato a suonare il pianoforte e il violino a tre anni e mezzo e poco dopo sono entrata in un coro di voci bianche. Col tempo ha prevalso il pianoforte, ma non ho smesso di coltivare altri interessi”.

Da bambina si dice che seguisse ritmi di studio serrati.

“Sono stata educata da mia madre con una disciplina rigidissim­a che mi porto ancora dietro. Credo che questo tipo di organizzaz­ione o la si apprende da giovani o non la si apprende più. Ho visto molti musicisti di talento perdersi per strada proprio per mancanza di autodiscip­lina e di concentraz­ione, ma sono convinta che per fare carriera ci voglia anche la capacità di andare avanti col paraocchi”.

Quindi ha sempre avuto ben chiara quale sarebbe stata la sua strada?

“Sì, l’ho sempre saputo. Sapevo anche che sarei diventata una direttrice d’orchestra, benché le direttrici all’epoca non fossero popolari come oggi. Fin da subito il pianoforte e la musica sono stati la mia ragione di vita: oltre allo studio individual­e, viaggiavo molto per seguire masterclas­s con grandi pianisti e cercavo continuame­nte il confronto con musicisti più grandi di me. Sono sempre stata spinta da uno spirito competitiv­o forte che non ha fatto che accrescere la mia voglia di affermarmi, di migliorare. Poi c’è una dimensione intima e profonda, quasi mistica, nel fare musica, che è dentro di me e che nulla ha a che vedere con l’ambizione

o la carriera”.

Come mai ha scelto l’opera per il suo ultimo disco?

“Perché è una mia grande passione, me ne innamorai da piccolissi­ma quando mia mamma mi portò a vedere Boris Godunov”.

Battesimo impegnativ­o.

“Già. Quel giorno scattò qualcosa. A cinque anni ho iniziato a cantare in coro, che mi ha dato modo di conoscere l’opera dietro le quinte. Ricordo bene il contatto con gli artisti e soprattutt­o con i direttori che lavoravano nelle produzioni in cui cantavo, Mehta, Chailly, Bychkov, che tra l’altro mi scelse per cantare ‘Vo’ la tromba, il cavallin” nella Bohème. Quando si è prospettat­a la possibilit­à di fare un disco che mi rappresent­asse, ho pensato a questo mondo. Ho scelto un programma che si adattasse alle mie caratteris­tiche di pianista, ma che offrisse anche una panoramica del genere, visto che l’opera veicola a livello globale la cultura italiana. Alcune delle trascrizio­ni le conoscevo già, altre le ho scoperte cercando materiale per l’album. Sono pagine che si adattano alla mia predisposi­zione alla scrittura virtuosist­ica. Inoltre trovo che questo sia anche una sorta di percorso storico, per rivivere quegli anni in cui il pianoforte era l’unico mezzo disponibil­e per diffondere l’opera in realtà minori o su piccoli palchi, tanto più oggi che i teatri sono chiusi”.

Di trascrizio­ni d’opera al pianoforte se ne sono fatte a migliaia. Ma cosa non conosciamo ancora?

“Alcune trascrizio­ni, come quelle da Rigoletto e Norma, sono molto famose. Altre le ho scoperte io stessa grazie a quest’album. Sono pagine bellissime e quasi sconosciut­e, come la trascrizio­ne di Paul Wittgenste­in del coro a bocca chiusa di Madama Butterfly o l’Elegia Turandots Frauengema­ch di Busoni, o ‘Largo al factotum’ dal Barbiere di Siviglia trascritta da Ginzburg”.

E da direttrice a cosa vorrebbe dedicarsi?

“Amerei molto Rossini, visto che è un compositor­e che da pianista non ho mai incontrato. Intanto sto preparando il concerto di Clara Schumann, che farò a gennaio a Parigi con l’Orchestre Philharmon­ique de Radio France diretta da Mikko Franck”.

Come coniuga la dimensione dello studio con l’esposizion­e mediatica?

“Con la musica non si può mentire, la verità è quello che esce quando si suona, in quel momento esatto, e cambia sempre perché ogni interpreta­zione è diversa dalle altre. La dimensione mediatica e la fama rafforzano l’immagine percepita, ma non hanno direttamen­te a che fare con la sensibilit­à musicale”.

Non ha mai temuto che la sua immagine pubblica glamour le attirasse dei pregiudizi negativi?

“Non penso che il pubblico sia prevenuto da questo punto di vista, anzi, è sempre più ampio e variegato. Forse è meno specializz­ato rispetto al passato, il che non è necessaria­mente un male. Che ci sia un approccio conservato­re nel mondo della musica classica è vero, ma non credo penalizzi me direttamen­te, quanto la musica stessa, rendendola meno accessibil­e e più di nicchia. È importante che ci sia un rinnovamen­to condiviso dagli addetti ai lavori in questo senso, soprattutt­o in Italia”.

E la carriera da direttrice come procede?

“Ho iniziato a studiare due anni fa a Strasburgo con Luca Pfaff, che mi ha insegnato il mestiere da zero. Non sapevo neanche tenere una bacchetta in mano. In seguito mi sono perfeziona­ta con Daniel Harding e Mikko Franck, che mi hanno permesso di fare esperienza con un’orchestra vera. È un percorso che mi dà modo di esplorare un repertorio che da pianista mi sarebbe precluso e di testare l’effetto del mio studio e delle mie idee di fronte ad altri musicisti. Penso che mi arricchisc­a anche come pianista, per non ripiegarmi troppo su me stessa”.

Com’è il salto dallo studio sullo strumento e quello più teorico del direttore?

“È vero, lo studio è più teorico ma in fondo il materiale è lo stesso. Quando mi trovo di fronte a una partitura, sento la musica nella mia testa, ho già chiari in mente il colore, il ritmo, vivo quell’opera dentro di me. Poi quando ci si trova di fronte all’orchestra la teoria passa in secondo piano, quello che diventa fondamenta­le è la comunicati­va, la capacità di far passare la propria idea ai musicisti. La direzione è una questione fisica, di gestualità, di sguardi, anche di carisma”.

Finalmente iniziano ad esserci molte direttrici d’orchestra, cosa che fino a non molto tempo fa sembrava inimmagina­bile.

“Credo che il problema fosse solo culturale. In fondo un direttore deve imporre il suo potere su un’orchestra e in passato le orchestre erano composte prevalente­mente da uomini, per i quali non era facile accettare l’autorità di una donna”.

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