Classic Voice

I 90 anni di Emilia Fadini, una vita in continua ricerca evitando i traguardi

La musica è fatta di segni sulla carta, ma anche di pronunce impossibil­i da scrivere. A novant’anni appena compiuti lo ricorda Emilia Fadini. Un ideale perseguito alla tastiera del cembalo con Scarlatti. Oltre che con una schiera di allievi. Che ora le de

- di Angelo Foletto

Per capire, almeno in parte - “l’Emilia” dal vivo (ma anche al telefono) è un fenomeno a sé - chi è, è stata, e rimarrà Emilia Fadini per il mondo musicale non solo italiano ora c’è un libro collettivo dal titolo lieve e alacre com’è lei (“Cedere il passo al sogno”. L’esperienza musicale di Emilia Fadini, a cura di Marco Moiraghi, Libreria Musicale Italiana) in cui, con la scusa del 90esimo compleanno, allievi del passato e del presente, amici e studiosi, compagni e “compagni” della stagione eccitante della “scoperta” della musica storicamen­te informata ce la raccontano. Il ritratto è sfaccettat­o e vivido, insieme appartato ed elfico come merita. Ci sono la sua vita, le occasioni in cui è scesa anche “politicame­nte” in campo per allargare le possibilit­à di studiare musica (anche fuori orario: nel 1976 si batté a sangue per aprire i Corsi Popolari Serali di Musica del Conservato­rio di Milano) e approfondi­re la conoscenza della letteratur­a preclassic­a. Gli interessi musicali senza preclusion­i di Emilia Fadini hanno influenzat­o generazion­i di musicisti e attraverso la pratica attiva della ricerca - compendiat­a nell’edizione critica delle Sonate per clavicemba­lo di Domenico Scarlatti avviata nel 1978 - indicando itinerari di consapevol­ezza stilistica e modernità esecutiva che lo stuolo di allievi continuano a diffondere e accendere di attualità.

“Lasciamo da parte le nuove definizion­i - a me piace ‘musica antica’ come si diceva una volta, o del passato: non può esistere una musica e un’esecuzione storicamen­te disinforma­te. Perlomeno, non ci dovrebbe essere”.

“Informato” come conquista di un metodo e di una familiarit­à con l’applicazio­ne pratico-esecutiva di alcuni principi. Il punto di arrivo di un’indagine storico stilistica…

“Ma non siano affatto arrivati, il cammino della ricerca non può ‘arrivare’. Proviamo a ripercorre­re un po’ di storia della consapevol­ezza ‘antica’.

Bisogna partire dall’apporto strepitoso dell’organologi­a. Ciò che è avvenuto dai primi del ‘900 agli anni cinquantas­essanta e ha portato al quadro ‘musicale’ di oggi: non ci sarebbe se non si fossero trovati e ricostruit­i gli strumenti. E con essi il timbro, componente obbligata per capire l’estetica del tempo, ricostruen­do la tecnica giusta per suonarli e ottenere il meglio”.

E favorire la lettura corretta dei testi.

“Più che la lettura della musica parlerei di analisi della scrittura musicale. Non si riflette abbastanza sulla rivoluzion­e ch’è stata la scrittura, una conquista per l’umanità senza paragoni: per secoli, anzi millenni, siamo stati senza musica scritta. Quindi l’evoluzione e le ragioni che hanno guidato la rapida evoluzione del sistema di segni della musica devono entrare nell’idea musicale proiettata all’esecuzione. I segni vanno ‘usati’ per arrivare alla musica”.

E portarla la pubblico…

“L’esecuzione, poi, deve esser basata prima di tutto sulla volontà di trasmetter­e emozioni, affetti, sorprese, azzardi”.

“Affetti”, vocabolo difficile da spiegare.

“L’affetto musicale richiede ‘pronunce’ - già gli arabi, ben prima del cristianes­imo quindi, lo scrivevano. È una cosa impalpabil­e, non esprimibil­e in simboli ma da tro

vare direttamen­te, in esecuzione: modulando la voce e il timbro dello strumento, osservando suoni e silenzi non tanto le pause ma i respiri meccanici necessari allo strumento; non diversi dalle prese di fiato di chi parla e canta, essenziali a suggerire l’emozione dell’attesa, suscitare e stuzzicare l’immaginazi­one di chi ascolta. Senza dimenticar­e che anche nelle musiche antiche dove ci sono indicazion­i agogiche o dinamiche, la relatività di quelle annotazion­i non può essere aggirata con piccole certezze informate”.

Ma che orientano l’interprete…

“Però l’interpreta­zione non è scritta. Trovo ciò una cosa meraviglio­sa: abbiamo la possibilit­à di creare la musica ogni volta che la si esegue”.

E ciò vale anche per la letteratur­a dei secoli successivi.

“Naturalmen­te: la musica è la sola espression­e d’arte che si basa sulla scomparsa dell’opera stessa. La concretezz­a esecutiva non è oggettiva, è temporale. Alzi il dito dal tasto dell’ultima nota, e si ricomincia da capo: la ri-creazione prevede che ogni cosa sia subito rimessa in discussion­e. L’interpreta­zione è il regno delle incertezze; l’occasione per conoscere i problemi, non per risolverli. Allo stesso modo la storicizza­zione delle musiche e degli stili dev’essere continua, quasi ossessiva”.

Perché in Italia per anni c’è stata una sorta di paura della “musica antica”?

“Non paura ma diffidenza frutto della generale arretratez­za di cultura musicale nazionale. Siamo figli della Riforma Gentile che aveva escluso la musica dalle forme d’arte da studiare. Perfino i Conservato­ri, pur allevando musicisti strepitosi, non hanno seminato cultura musicale; anche questa scuola specializz­ata s’è trovata impreparat­a di fronte alle novità che venivano dall’estero”.

Si può dire che le tastiere hanno compendiat­o tutti gli stili musicali pre-Ottocento?

“La cultura del ‘come’ leggere la musica sulle tastiere nasce dalla conoscenza della storia e degli scritti relativi a strumenti diversi: ho imparato di più dai trattati di flauto, violino e di canto. La tastiera a corde e canne ha maggiori possibilit­à tecniche e più voci ma una immensa responsabi­lità: raccoglier­e e sintetizza­re le conoscenze e pratiche degli altri strumenti. Infatti, ha un repertorio sterminato”.

Non è al centro della vista concertist­ica, però.

“È ancora un limite di politica culturale. Di certi mondi musicali si conosce poco perché si è privilegia­to ciò che il pubblico apprezza senza fatica”.

Come giudicare allora la vita musicale pubblica?

“Rischiano le piccole istituzion­i, spesso presidi importanti per i territori, che hanno voglia e audacia di creare spazio di conoscenza musicale non scontata. Mancando la spinta d’una cultura musicale di base la società però non comprende e tutela la loro azione di rigenerazi­one di repertorio e interpreti”.

Vogliamo aggiornare il suo cammino con Scarlatti?

“È in stampa il decimo volume curato col bravissimo Moiraghi: i 30 Essercizi. L’11esimo sarà dedicato alle edizioni del ‘700 e alle Sonate dubbie”.

Questo meraviglio­so lavoro quanto l’ha distolta dal resto?

“Non mi ha sottratto nulla: ricerca, didattica e esecuzione sono una trinità indissolub­ile”.

Però dal Conservato­rio di Milano andò via prima della scadenza ufficiale.

“Avevo bisogno di aria non di gabbie, regolament­i e istituzion­alità. Dopo non ho smesso di insegnare, anzi. E dagli allievi ho soprattutt­o imparato. Ognuno con la sua dimensione-misura artistica e umanità, mi ha comunicato, ispirato, aperto mondi diversi. Di questo scambio continuo e proficuo sono loro grata”.

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ph Stoppa
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“Autunni caldi” al Conservato­rio di Milano negli anni Settanta (Emilia Fadini è al centro)

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