Non sparate sul JAZZISTA
La mano sinistra non risponde più. Così Keith Jarrett annuncia la fine della sua carriera. Conclusa con un live registrato a Budapest. Nel segno di Bartók
Ultimo album, Budapest Concert. Sarà anche l’ultimo? Qualcuno dice che possiamo restituire il punto interrogativo al tasto delle sfumature prudenti. E quel qualcuno è Keith Jarrett. Dopo due anni di silenzio, di riapparizioni mancate, di concerti non suonati, è lui ora a svelare a Nate Chinen del “New York Times” quel che sapevamo ma non avevamo il coraggio (la civiltà?) di scrivere: il pianista è dimezzato, anzi non esiste più.
“Il meglio che mi aspetto di recuperare dalla mia mano sinistra è reggere una tazza”, ride amaro Jarrett. Metà del corpo, offeso da due ictus tra marzo e maggio del 2018, non risponde più. La leggendaria simbiosi con lo strumento si è spezzata. Il pianoforte tace anche nella casa immersa nel verde del New Jersey. I tentativi di riprendere a suonare sono stati demoralizzanti: qualche contrappunto con la destra, “cercando di pretendere d’essere Bach con una mano sola, ma era solo giocare con qualcosa”. Prospettive? “Non so che cosa il futuro abbia in serbo per me. Al momento non mi sento un pianista”. E riesce perfino a scherzare: “Non si tratta di una cosa da shoot the piano player (sparate sul pianista). Io sono già stato shot”.
La musica che scavalca calendari e geografie, stili e linguaggi, è ormai costretta a misurarsi con l’assenza di uno dei protagonisti più liberi e originali della contemporaneità, premiato (giusto, giustissimo) con un Leone d’oro alla Biennale Musica 2018 che già non poteva ricevere con le sue mani.
Dal primo album a suo nome, Life Between The Exit Signs (1967), Jarrett ha attraversato quasi tutta la musica che ci possa venire in mente: bebop, post-bebop, la svolta elettro-ritmica di Miles Davis (Bitches Brew, Live at Fillmore), il blues, il free jazz, l’innodia gospel, il camerismo e il sinfonismo più “misti” e fuori pista.
Da interprete si è confrontato con Bach e Handel (Clavicembalo ben temperato, Suites per tastiera), con Mozart (Concerti per pianoforte e orchestra), con il Novecento storico (Bela Bartók, Dmitri Sostakovic), con la musica colta americana (Samuel Barber, Lou Harrison), con la tonalità meditativa di Gurdjeff e l’introspezione “mistica” di Arvo Pärt.
Come bandleader, ha guidato due gruppi che si sono fronteggiati dalle sponde e dalle culture opposte dell’Atlantico: a) quello fondato in America nel 1971 con i sax di Dewey Redman, il contrabbasso di Charlie Haden e la batteria di Paul Motian; b) quello emerso dalle acque del Nord Europa, alla fine dei Settanta, con Jan Garba
rek, Palle Danielsson e Jon Christensen, sotto l’influsso di Manfred Eicher (Monaco di Baviera), in casa Ecm, ch’è un pensiero del far musica più che una casa discografica. Al centro di tutto si è aperto un mondo a sé che è Jarrett, solo Jarrett: la via solitaria al pianoforte che faceva di ogni concerto un salto nel buio, un flusso imprevedibile della memoria e dell’immaginazione, rimescolando improvvisazione e fogli d’album volati via dalle mille e una stanza della musica del mondo.
Se tutto Jarrett, come temiamo, è ormai suonato e registrato, dobbiamo ricacciarci in gola gli “ancora?” e “un altro?” che scattavano sgraziati a ogni album dal vivo. La lunga serie dei Solo Concerts che la Ecm ha pubblicato negli anni, dopo il Facing You in studio del 1971, che aprì il filone, e dopo la leggenda del Köln Concert che lo santificò nel 1975, dobbiamo solo ringraziare che sia lunghissima. Non è più di troppo nessun pezzo dell’archivio che ha scandito la musica in stile libero degli ultimi cinquant’anni e la vita di quasi quattro generazioni, ora che Jarrett è costretto al silenzio.
E merita di essere tenuto stretto anche questo Budapest Concert che si è aggiunto il 30 ottobre, in cui rivive la serata del 3 luglio 2016 nella Sala Bela Bartók della capitale d’Ungheria. Un pezzo che per Jarrett è “The Gold Standard”, la perla del tour europeo di quell’anno.
Non c’è niente di estremo o di rivoluzionario, jarrettianamente parlando, in quel concerto. Anzi. Rispetto agli archi lunghi delle improvvisazioni del passato, Budapest Concert è un esercizio di sintesi in dodici episodi (più due bis) che Jarrett chiama Parti. La più lunga, la prima, dura quattordici minuti; le altre stanno fra i quattro e gli otto.
La Parte I è un po’ la Sinfonia avanti l’opera di quel che verrà. Da una cascata informale di scale e arpeggi, attacco-tipo di molti concerti degli ultimi anni, anche alibi meccanico dell’ansia da “pagina bianca”, si scivola in un lungo rallentando che lascia affiorare un ritmo ostinato, eco di blues. La corporeità afroamericana che s’insinua nel post-serialismo europeo, topos jarrettiano per eccellenza.
La sequenza delle altre undici Parti è un’alternanza calibrata, senza fretta né ansia dimostrativa, di densità e rarefazioni, cambi di colore e tonalità, pieni e vuoti, melodia e ritmo.
La Part II è tutto un rintocco di accordi lasciati risuonare come un lontano, lontanissimo Satie. La Part III cambia i colori insistendo più friabile sulle ottave alte. La Part IV appoggia sincopata su un tema che si scontorna come un bassorilievo in legno lavorato a punta. La Part VI ritorna all’informale veloce e astratto. La Part VII è il coraggio della ricerca della melodia. La Part VIII è un’altra via al melodizzare per vie interne. La Part IX è un’altra scorribanda velocissima nell’informale. La Part X è un vero ricercare alla maniera antica ma con doppi rintocchi della mano sinistra che insistono dall’inizio alla fine, un po’ alla Dollar Brand prima maniera. La Part XI è un finale evanescente, fatto apposta per preparare i tre pezzi finali in forma di song, dei quali due bis: It’s a Lonesome Old Town - visione di lockdown prossimi venturi? -e Answer Me, My Love, toccante. Due i pezzi da doppia stella Michelin: il Blues (Part XII), che ti entra dentro, batte il piede e scaccia ogni sguardo triste da Covid, e la Part V, ch’è ballata, nostalgia, ricerca della melodia, il pianoforte com’è e come sempre sarà se non si ha vergogna della tonalità e della melodia. Insomma Jarrett allo stato puro.
Per rami di famiglia, Keith ha origini centroeuropee, tedesche, ungheresi per via di madre, pianista. Bartók è il maestro di Microcosmi, di forme brevi, di musica in cui il tempo pulsa nervoso, come nel terzo Concerto per pianoforte e orchestra che Jarrett conosce bene e ha registrato. Bartók è anche il maestro di ricerca vera, sincera, delle tradizioni popolari che registrava dalle voci dei contadini con i primi marchingegni a cera, lungo le dorsali del Caucaso fino ai confini del Medio Oriente. Nella capitale dell’Ungheria, Jarrett sente di aver toccato il punto più alto del suo ultimo tour mondiale, prima del doppio knock out. C’è qualcosa di simbolico in tutto questo? Di estremo, sì.