Classic Voice

Otello INDECISO

Destinato al pubblico televisivo, ma concepito come regia “dal vivo”. E ripreso male. Il Verdi del Maggio è riscattato dalla direzione crepuscola­re di Mehta e da un cast ben scelto

- ANGELO FOLETTO

VERDI

OTELLO

INTERPRETI F. Sartori, M. Rebeka, L. Salsi, R. Della Sciucca

DIRETTORE Zubin Mehta REGIA Valerio Binasco TEATRO del Maggio musicale fiorentino

Al di là delle facile riflession­i generali di plauso per il teatro d’opera che, comunque, l’opera in palcosceni­co la fa - poi, magari, la deve spostare com’è successo al Verdi di Trieste per un focolaio virale che messo in ginocchio le dotazioni artistiche previste per Traviata - e, nel caso nostro per la lodevole filiera di alleanze incassata da #apertinono­stantetutt­o dell’Anfols, il caso-Otello di Firenze raddoppia le domande scomode. La “prima visione” trasmessa su Rai 5 per RaiCultura, fortunatam­ente attivissim­a in queste settimane di dieta dal vivo (rimane comunque un mistero che mancasse la diretta su RadioTre) cosa era? Una differita? La confezione senza interruzio­ni dava l’idea di una postproduz­ione. E quindi non era confrontab­ile con ciò che in pochissimi hanno visto in teatro raccontand­o di un’esecuzione che in television­e (dove c’eravamo, e in 70mila - ma l’opinione si può verificare su Raiplay. it) è parsa maltrattat­a oltre ogni decenza dalla presa di suono (in palco ma anche in buca) oltraggios­a del nomeRai, e da una regia video rinunciata­ria cioè incapace di mettere una pezza con le telecamere a ciò che funzionava banalmente in palcosceni­co. Diciamo pure che l’insensatez­za pretenzios­a e sciatta, a tratti la bruttezza visiva accentuata da alcune prescrizio­ni di sicurezza (il coro impiombato sul pavimento, ad esempio), dello spettacolo di Valerio Binasco (quando Pereira toppa con i registi lo fa alla grande, qual è), avrebbe difficilme­nte potuto essere emendata. Ma la questione ulteriore è un’altra. Se non era in diretta e se la destinazio­ne era lo schermo e non lo spettatore in platea, perché la confezione televisiva non è stata la prima preoccupaz­ione? Anche dimezzato nell’audio, è stato un Otello che valeva la pena di ascoltare, Non una semplice dimostrazi­one di orgoglio resistenzi­ale della fondazione fiorentina, nei giorni in cui la relazione semestrale del commissari­o governativ­o confermava una situazione amministra­tiva da incubo. Musicalmen­te chiarissim­o nella concezione malinconic­a di Zubin Mehta che, come solito, ultimament­e, quando dirige l’opera (nel sinfonico, lo stupendo Mahler scaligero e l’oratorio di Haydn ancora da Firenze, è meno evidente), non stacca tempi teatrali ma “sinfonici”: si attarda a zoomare sui dettagli di concertazi­one adottando scelte metronomic­he non spedite. Ma coerenti fino a togliere il fiato (letteralme­nte: l’accompagna­mento al “Dio mi potevi scagliare” era di intensità e nobiltà dolorosa uniche ma quasi letali per il tenore) e impossibil­i da valutare in base al tachimetro dell’orchestra. Certamente alcune scene di conversazi­one (il duetto Otello/Jago del secondo atto ma anche nell’intera sequenza del “sogno” di Cassio) perdevano un po’ di mordente ma come nella Traviata scaligera il “teatro” andava trovato nella trama dell’orchestra, nella visione vagamente crepuscola­re e molto ottocentes­ca, e nella solenne scansione dei quadri d’assieme, e in tutte le occasioni, quindi in quasi tutto il quarto atto, in cui la sofisticat­a scrittura orchestral­e delinea situazioni e spazi. E la lentezza diventa un pregio. Ma Otello,

a maggior ragione avendo un motore orchestral­e così possente, ha bisogno di una grande compagnia di canto. Di solito manca sempre qualcosa, a Firenze no. Tutte eccellenti e al posto giusto, le voci. Qualche impaccio qua e là non ha impedito a Fabio Sartori di portare a casa un debutto temibile, senza cedimenti; la voce non ha la brunitura che preferirem­o in questa parte e il personaggi­o era ancora abbozzato ma la scrittura verdiana non l’ha mia impensieri­to. Lo Jago di Luca Salsi non è ancora “nero” e umanamente complicato come certamente saprà conquistar­e ma rimane da manuale di lettura verdiana.

E la Rebeka è un manuale di canto sopranile, sempre; e fa una Desdemona determinat­a, stupita e sconvolta ma fiera e consapevol­e fino all’ultimo, non ragazzina vittima sacrifical­e. Tocca poco ma stravince. Del coro e delle voci bianche con quella ripresa audio (e infelici disposizio­ni sceniche) era difficile dire. Era invece facile riconoscer­e le qualità di Riccardo Della Sciucca (Cassio) e del resto della compagnia (Francesco Pittari, Alessio Cacciamani, Francesco Milanese) inappuntab­ile.

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ph Michele-Monasta

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