MARINO FALIERO
Il Festival di Bergamo centra l’obiettivo di andare in scena rimanendo se stesso. Grazie alla sua web tv. E sulle due messe in scena vince il Belisario “concertante”
DIRETTORE Riccardo Frizza REGIA Stefano Ricci
Marino Faliero, che nel catalogo donizettiano vien subito prima di Lucia e fu scritta a Napoli in vista di Parigi dove venne rielaborata anche su fattivo consiglio di Rossini, ha per l’appunto qualche evidente scoria rossiniana (soprattutto per quanto concerne il tenore) ma nella sua parte vitale si regge su di una colonna vertebrale di robusta, scabra drammaturgia che, con le parti del protagonista e del capocantiere Israele, s’avvita su due personaggi dal linguaggio per l’epoca modernissimo e che avrebbe potuto essere punto di partenza per un ancor più grande futuro ove Donizetti non fosse morto così presto: avesse proceduto parallelo a Verdi, il teatro musicale italiano sarebbe stato drammaturgicamente assai più articolato. Riccardo Frizza con la sua ragguardevole orchestra Donizetti Opera, venendo brillantemente a capo delle improbe difficoltà logistiche, mi sembra abbia puntato con successo proprio a far risaltare al massimo l’aspetto drammaturgico del Faliero. Direzione vigorosissima, tutta pulsioni dinamiche e ricchezza di coloriti pur nell’ambito d’una tinta generale favolosamente “scura”; le numerose gemme strumentali fatte splendere entro un melodizzare in cui anche i passi declamati (massime il duetto “politico” Faliero-Israele, d’impianto audacissimo) si sciolgono in canto: evidenziando così quell’humus sul quale – consapevolmente, a mio avviso – germoglieranno diverse piante verdiane, come i duetti Simone-Fiesco, Walter-Wurm, FilippoPosa.
Il cast ha il buco nero del tenore, ma solo per colpa della malasorte e non d’una sbagliata programmazione. Javier Camarena sarebbe sicuramente stato in grado di risolvere degnamente l’impossibile scrittura concepita per la particolare vocalità di Rubini (il sempre citato e mai troppo ben chiaro falsettone): indisposto il tenore messicano, o saltava tutto o si doveva far buon viso al canto di Michele Angelini, che ha studiato la parte in pochissimi giorni e ha persino imbroccato qualche sovracuto all’inizio, ripiegando poi sull’accenno o sul piccolo cabotaggio, stonando spesso ma arrivando in qualche modo alla fine. Peccato, ma il teatro è anche questo e gli si deve essere comunque gratissimi, dato che la recita ha potuto aver luogo consentendo così di ascoltare Michele Pertusi che a Faliero tornava dopo
vent’anni, quando ne fu perentorio protagonista a Parma e a Venezia. Trionfo non solo di tecnica ma di continuo, sapientissimo lavoro affinché detta tecnica continui a mantenersi perfetta col mutare della struttura fisica: la linea vocale a me è parsa addirittura migliore, nella padronanza assoluta di un’emissione talmente ben appoggiata e proiettata da consentire non solo morbidezza e omogeneità magnifiche, ma la possibilità di variare capillarmente la dinamica così da imprimervi una varietà sbalorditiva di accenti in grado dapprima di sbozzare un carattere e comunicarne poi l’evolvere psicologico. Teatro, insomma. Teatro al suo massimo livello: pagina aurea nel gran libro - molto ancora da scrivere - dell’interpretazione drammaturgica (non “solo” vocale, cioè) donizettiana. Se Pertusi giganteggia dalla cintola in su è perché non si è Pertusi per niente: ma Francesca Dotto, dopo un inizio un po’ circospetto e con qualche stridore di troppo, nel prosieguo ha delineato un’Elena di grande efficacia; Bogdan Baciu ha retto senza troppo sfigurare il confronto con Faliero, e già questo basterebbe per dirne bene, ma in più la voce è piuttosto bella, l’emette con criterio, fraseggia con stile e insomma farà se non strafarà. Le parti di fianco, in un’opera del genere, sono difficili e importanti: ottimo il Gondoliere di Giorgio Misseri (il suo canto interno è pagina stupenda, capace di reggere il confronto con l’analoga del rossiniano Otello), di robusto rilievo lo Steno di Christian Federici, ottimo il Leoni di Dave Monaco. Era in forma scenica, quest’opera. E la scena di Marco Rossi è niente male, con quell’intrico di passerelle su struttura tubulare multipiano che, illuminata magistralmente da Alessandro Carletti, riesce suggestiva nel metaforizzare calli sotoporteghi androni d’una Venezia ambigua, maleodorante, culla d’intrighi e cupe ambizioni. Però c’è solo la scena. Quanto dovrebbe darle senso compiuto, ovvero i personaggi impegnati a svolgere una storia, manca in toto. Al suo posto, mimi inguainati in un vestiario sberluccicante che magari, forse, chissà, dovrebbe comunicare la volgarità moderna: ma aggiungono fastidio al fastidio già tremendo suscitato dal loro contorcersi, strisciare, spalancare le fauci, indossare orrendi copricapi zoomorfi, mentre i personaggi della vicenda salgono, scendono, soprattutto stanno e amen. Certamente è questione di gusto personale, ma per me se una regia può definirsi tale è perché racconta una storia attraverso la scolpitura dei personaggi e il loro rapportarsi - in sintonia o in contrasto - all’ambiente che li esprime. Altrimenti, è una variante del solito scenografo che s’improvvisa regista: Pizzi avrebbe “fatto” un gran Veronese e i suoi figuranti sarebbero stati dei gran bei ragazzi in pose plastiche; Ricci fa il maestro d’aerobica; nessuno dei due è un regista, ma allora preferisco Pizzi che almeno grandissimo scenografo è senz’altro.