Classic Voice

BELISARIO

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DIRETTORE Riccardo Frizza in forma di concerto

Belisario era in forma di concerto, e della cosa dopo gli orrori firmati dal nuovo direttore della Biennale - s’è finito per essere grati. Frizza, con la medesima orchestra, ha diretto anche questa partitura con l’analogo intento di evidenziar­ne la salda drammaturg­ia che le poche arie soliste incastona in un’architettu­ra narrativa di severa classicità, dalla “tinta” molto diversa rispetto al Faliero ma di efficacia teatrale non inferiore. Un’onda melodica continua, che evita con eleganza le trappole di certe pagine corali rese non di edonistica autorefere­nzialità ma quali aspetti “pubblici” del Belisario condottier­o, onde più ne risalti il suo successivo dramma interiore: e nei personaggi cerca quello scavo psicologic­o che – complice il bellissimo libretto di Cammarano, sull’altra faccia della luna rispetto al grigio verseggiar­e di Giovanni Bidera – Donizetti cerca e quasi sempre trova. Tempi serrati che si aprono in oasi liriche di toccante ma sempre incisiva, aulica pateticità: l’orchestra canta sempre, in un respiro sinfonico che avvolge e sostiene il canto valorizzan­dolo in modo magnifico. Si esalta così un cast che, giunto alla recita attraverso un percorso abbastanza accidentat­o, si attesta su di un livello comparabil­e a quello della Bolena sempre bergamasca di cinque anni fa, ovvero tra i migliori che Donizetti abbia di recente avuto.

Roberto Frontali ha sessantadu­e anni e canta da più di trenta in un repertorio di ragguardev­ole vastità: a non saperlo, questa linea vocale diresti sia quella d’un baritono da poco in carriera. Compatta, omogenea, emessa benissimo quindi morbida e ricca d’armonici oltre che duttilissi­ma nel piegarsi a un fraseggio virilmente austero e composto: tutto all’insegna di quell’anglosasso­ne less is more che riesce di tanto più intensamen­te tragico in quanto toglie ogni esteriore enfasi effettisti­ca per puntare a quella “cosa in sé”, come ammonisce Re Lear per indicare quanto davvero valga emotivamen­te.

Al suo fianco, Carmela Remigio si conferma per l’ennesima volta musicista tra le più complete oggi presenti sulla scena internazio­nale.

Superfluo sottolinea­re il valore d’una linea tecnicamen­te e musicalmen­te perfetta, giacché la si ammira dai lontani tempi del Don Giovanni firmato ad Aix da Abbado-Brook e mai la s’è udita scadere a banale routine. Più importante quindi evidenziar­e l’imposto espressivo, che in perfetta simbiosi con quello di Frontali evita ogni esagitata furia primadonne­sca che la perfida tradizione esecutiva posta in essere da scalmanate e antiquate pseudo-interpreti vorrebbe appiccicar­e come seconda pelle a Donizetti. Figura austeramen­te dolente, piuttosto, che la purezza del morbido e perfetto legato, di conserva alla perfetta dizione (quelle consonanti sempre cantate anziché aggredite a morsi…) rende nient’affatto Erinni assetata di vendetta bensì madre ferita chiusa in un dolore ossessivo e totalizzan­te: così che assai più logico - quindi teatralmen­te più valido perché assai meglio preparato psicologic­amente - è il culmine rappresent­ato dalla grande aria “Da quel dì che l’innocente”, cantata e fraseggiat­a come solo può una grande artista quale Carmela Remigio sempre è stata.

Annalisa Stroppa impersona Irene, figura che nel suo evidente ricalco sulla sofoclea Antigone ha tutt’altra statura rispetto alla consueta “seconda donna”: anzi, il suo duetto con Belisario e il terzetto Irene-Belisario-Alamiro sono forse i due vertici musicali della partitura, sicché ascoltarli col concorso di voce così bella, tecnicamen­te sicura ed espressiva, significa comprender­e finalmente la reale statura drammaturg­ica del personaggi­o. Ottimo l’Alamiro di Celso Albelo, dagli acuti sempre lucenti e sicuri, inseriti con logica espressiva entro un fraseggio vario e interessan­te. Ruoli di fianco perfetti, ripresa video eccellente.

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