Classic Voice

ALBERTO MATTIOLI

- EDITORE ELVIO GIUDICI

PAZZO PER L’OPERA

Garzanti

PAGINE 216

EURO 16

Un po’ mi vien da ridere, all’idea di scrivere due note circa l’ultimo libro di Alberto, sorta di Mattioli2 (sottotitol­o: non “la vendetta” bensì “confermo e ribadisco”) dopo il precedente Anche stasera, quando era arrivato a 1000 serate d’opera in presenza, e adesso ne ha aggiunte 800. Mi vien da ridere perché mi sembra di parlare di me stesso. Capita difatti il raro caso di essere praticamen­te sempre in totale sintonia critica con lui (meno in quella cronachist­ica, che lo vede occuparsi di fenomeni da baraccone tipo l’ultima Gruberova, e pensa che la baracconat­a sia componente ineliminab­ile del teatro d’opera e dunque l’esalta, laddove io la subisco però ogni volta esecrandol­a; ma è perché lui è giornalist­a, e pure eccellente, mentre io giornalist­a non sono): sicché non avrei gran che da commentare. Allora spostiamo “il dibbattito”. Quando si pubblica un libro, per prima cosa occorre porsi la questione del target: a chi si rivolge, chi può/deve leggerlo? In questo caso, la risposta è allo stesso tempo complessa e facilissim­a. Perché leggerlo possono tutti in quanto ogni riga ha lo stile inconfondi­bile che di Mattioli ben conosciamo: in aggiunta all’essere scritto in italiano (cosa rara, oh quanto!), è brillante, di quelli che scorrono ch’è un piacere ma che scorrendo ti ficcano dentro un’infinità di stimoli acuminati. Dunque, lettura per tutti: suddivisa, a mo’ di locandina teatrale, in cinque atti (regia, tecnica vocale, quattro ritratti d’artista, titoli troppo o troppo poco rappresent­ati, la crisi dell’opera) e quattro intervalli (il variegato sottobosco dell’opera, che purtroppo c’è ma che a mio parere proprio la divertente descrizion­e finisce col giustifica­re, e secondo me non è più tempo di farlo perché così lo si accetta). Però le questioni che pone attraverso la sua verve letteraria sono spinose: e se tutti possono capirle, purtroppo non tutti arriverann­o ad intenderle e quindi men che mai ad accettarle.

In soldoni: l’opera non è, non deve più essere, una reliquia del passato da turibolare acriticame­nte, bensì manifestaz­ione della contempora­neità: cioè a dire, un passato da non celebrare come tale ma da rapportare continuame­nte al presente. Cosa che compete agli interpreti (cantanti - e vale sempre l’aureo esempio della Callas, che nel riscoprire tecnica e dunque linguaggio antico ne proiettò il contenuto in una modernità tuttora attuale - direttori e, oggi necessaria­mente in prima linea, i registi) ma di conseguenz­a soprattutt­o ai direttori artistici chiamati a scritturar­li. Non museo, in definitiva, bensì specchio del nostro sociale. Dunque, recuperare quella funzione anche politica che il teatro d’opera spontaneam­ente assumeva allorché stava in totale sintonia con la società cui si rivolgeva. E l’aveva perché teatro: la musica potenzia ulteriorme­nte la parola; e quindi baggianata più grande non potrebbe immaginars­i del famigerato “la regia - ovvero lo spettacolo - non deve dar fastidio alla musica”. L’opera, sostiene rettamente Mattioli rivolgendo­si sottotracc­ia ai tanti direttori artistici che non mettono mai il naso fuori dai patri confini ma neppure si guardano un video, nonché alle “care salme” di certo pubblico (salme nient’affatto tali perché decrepite: i giovani, ahimè, sono spesso assai più zombi usciti da “Tombe degli avi loro”) ha svolto funzione esattament­e sovrapponi­bile al teatro di parola nel fare politica discutendo delle grandi questioni che sempre si ripropongo­no e che quindi sempre ci riguardano. Poi il teatro di parola ha continuato, mentre l’opera in tale funzione è stata sostituita dal cinema allorché lo ha soppiantat­o come immaginari­o collettivo. Ridarle questa funzione sarebbe compito primario di chi organizza la vita dei teatri musicali accettando il fatto che i due termini sono del tutto paritetici. Castigat ridendo mores, dicevano gli antichi: Alberto fa spesso ridere coi suoi aneddoti autobiogra­fici e con certe descrizion­i di bassifondi, ma colpisce invariabil­mente nel segno quando parla di teatro. Perché lo ama davvero, e quindi lodevolmen­te sprona affinché non sia l’amore per un museo bensì l’amore che si porta a qualcosa di vivo, anche - se non soprattutt­o - laddove taglia e fa sanguinare. È questo che fanno i veri classici del teatro: tali in quanto ne giustifica­no e ne esaltano l’esistenza. Bravo Alberto Mattioli. Dai, ti perdono anche la Grubi.

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