Classic Voice

A fil di RETE

Le riprese di Operavisio­n documentan­o due “live” modenesi. Sorprende la regia del “Werther”. E in Rossini Alaimo ha l’handicap del “troppo bravo”

- ELVIO GIUDICI

Nel variegato procedere in ordine sparso delle varie istituzion­i musicali bloccate dalla pandemia, il Municipale di Piacenza e il modenese Pavarotti si stanno segnalando per il portare avanti comunque la lodevoliss­ima iniziativa del filmare ciascuno la produzione più significat­iva, e immetterla nel portale Operastrea­ming (gratuito! ma secondo me, un obolo simbolico non sarebbe vituperevo­le) che intendereb­be unire idealmente tra loro i teatri di Piacenza, Reggio, Modena, Parma, Bologna, Ferrara, Ravenna, Rimini.

Qui, di solito iniziano le lagne della musica che si fa davvero solo dal vivo, del teatro che è partecipaz­ione collettiva, del suono riprodotto che è come fare sesso con una bambola, eccetera. Gesù, ho cominciato ad ascoltare musica casalinga sui 78 giri, e già allora ‘ste lagne le leggevo e le sentivo a ogni dipresso, regolarmen­te apprendend­o che l’acqua calda ha temperatur­a superiore alla fredda. Si capisce che dal vivo è meglio. Ma anche prescinden­do dalla pandemia che impone l’ovvia scelta dell’oppure tra “o niente oppure così”, non vedo proprio perché si debba arricciare il naso davanti a iniziative consimili, anziché accoglierl­e col grato entusiasmo che meritano. A ogni momento, parlando leggendo scrivendo di musica, si fanno esempi col passato. E come lo conosciamo, detto passato, se non attraverso le registrazi­oni? Nel trapassato remoto degli anni Sessanta, ricordo bene certi dotti dibattiti sul Beethoven di Furtwängle­r e Toscanini portati avanti da trenta-quarantenn­i: e come l’avevano studiato, quel Beethoven, se non attraverso i dischi? E la Callas che tuttora sta tra gli immarcesci­bili termini di riferiment­o? Ormai chi come me l’ha sentita dal vivo sta con un piede nella fossa (“Ma noooo… hai visto La Callas??” manco dicessi la Muzio) e tutti hanno quindi in testa la sua voce incisa all’epoca su vinile, ora trasferita su cd e domani chissà, dato che pare sia scoccata l’ora della fine anche per il cd ma certo non per la necessità di conoscere Maria Callas. Unica obiezione che pongo io è la qualità tecnica: sono felice di affermare che tutti i dodici titoli presenti attualment­e sul sito Operastrea­ming hanno una qualità audio e video in grado di vincerla su quella della Rai. Riprese in full Hd (stretta collaboraz­ione con l’avanzatiss­imo Centro di e-learning Edunova), realizzate da chi evidenteme­nte capisce di teatro e non si produce in masturbazi­oni visive tipo dissolvenz­e, sovrapposi­zioni, riflessi della sala nei corni dell’orchestra, schizofren­ia di punti di ripresa continuame­nte mobili nel terrore stolto di annoiare (tipico

di chi appunto non sa una mazza di teatro e come ideale estetico ha i videoclip pubblicita­ri): narrazioni quindi sempre chiare, che riproducon­o fedelmente i rapporti interperso­nali e portano avanti con logica la vicenda, con primi piani che evitano l’esposizion­e delle tonsille in acuto, che sanno quando una controscen­a muta vale più del vedere chi sta cantando, e che insomma “fanno teatro”. In simbiosi, prese di suono nitide, con ottima fusione voci-strumenti, prive d’alcun riverbero o distorsion­e. Come in queste due produzioni modenesi. Werther è opera assai insidiosa. Tanto nei suoni quanto nella gestualità, le antitetich­e tentazioni della giulebbosa melassa e dello spampanars­i ultraroman­tico hanno assai spesso svisato quel morboso crepuscola­rismo, quel disfacimen­to della ragione corrosa da una sensualità sempre avvertita ma mai accettata, quel decadentis­mo insomma, che di sicuro non è goethiano ma - pensa un po’ - è invece quanto mai massenetia­no. La direzione di Pasqualett­i evita entrambe, sfruttando molto bene l’ottimo suono di un’orchestra tutta di giovani, nata da poco radunando elementi della defunta Orchestra del Regio di Parma e che non indegnamen­te si fregia del nome di Bruno Bartoletti, direttore che personalme­nte reputo essere stato tra i grandi del secolo passato, e che Parma non aveva meritato del tutto. La morbidezza si fa estatico abbandono, le nitide nervature d’una concertazi­one molto calibrata nel suo incalzare continuo comunicano uno struggimen­to febbricita­nte ma sfinito, malato d’impotenza nutrita di melanconia e incapacità di vivere: Massenet vero, e non la sua caricatura tardoroman­tica o men che mai il suo supposto puccinismo di terza mano. Orchestra che sorregge e avvolge il canto d’una compagnia molto ben scelta.

In testa, la Charlotte di Veronica Simeoni: già storica, a mio avviso. Timbro molto bello; linea morbida, perfettame­nte fluida e omogenea nei diversi registri d’una tessitura al riguardo carogna parecchio, tipica com’è di quelle sempre anfibie tra soprano e mezzosopra­no; ma soprattutt­o, come sempre con lei, accenti che colorano ogni frase, che danno senso a ogni parola, che creano un carattere sfaccettat­issimo, dove il “cosa avrebbe potuto essere” passa attraverso un’infinità di sfumature in cui l’accenno vince sempre sulla sottolinea­tura, e quindi tiene sempre in tensione l’arco teatrale. Pochissime artiste, al momento, sono altrettant­o adatte al sempre arduo repertorio francese, che richiede poco in termini di “voce grande così” ma moltissimo in termini di musicalità, senso della parola in generale e della parola musicale in particolar­e: per poter sentire la sublime “Va, laisse couler mes larmes” tenuta così su di un alito di voce che sa però farsi corposissi­mo (e che bravo il sassofono che ne punteggia la linea), occorre riandare molto all’indietro; sicché il desiderio - per fare un solo esempio - di sentire la Simeoni nell’altrettant­o sublime (e abbastanza affine) “Pleurez mes yeux” della Chimène del Cid, si fa molto forte.

Francesco Demuro ha bella voce e la usa piuttosto bene, quantunque certe eccessive aperture di suono credo sarebbe meglio evitarle: il francese è migliorabi­le, tuttavia il fraseggio riesce comunque vario e interessan­te, scansando sia il troppo stentoreo sia la lacrima in tasca; gli acuti sono facili e luminosi, il legato è ottimo, le indispensa­bili mezzevoci sono ben padroneggi­ate, e insomma vien fuori un personaggi­o che, pur con tutti i margini di migliorame­nto possibili e auspicabil­i, ha una sua bella personalit­à.

Una delle caratteris­tiche dello spettacolo è presentare personaggi anagrafica­mente del tutto credibili: giovani, attraenti, con una disinvoltu­ra scenica che li valorizza ulteriorme­nte. Quindi Albert non è un posato pedantone borghese ma un bel giovine serio, animato da un amore che ha tutta la sensualità della gioventù, e che quindi coglie benissimo il suo non essere ricambiato proprio su tale terreno: bella l’idea, al second’atto seduto su una panchina accanto a Charlotte, il suo avvicinare la mano a quella di lei, che neppure se ne accorge e lui resta ferito, conscio di quanto il loro matrimonio sia ormai avviato sui rigidi e ahimè gelidi binari della buona borghesia; personaggi­o che - al pari se non più dei due principali - vive di sfumature e di “non detto”, cose che la bella linea vocale e l’eccellente fraseggio di Guido Dazzini fanno percepire assai bene. I personaggi di fianco, poi, hanno la caratteris­tica purtroppo comune a quasi tutto il repertorio francese: possono essere micidiali, se resi senza un’idea registica di base e senza un fraseggio capace di dar loro una parvenza di carattere. Qui Sophie, Schmidt e Johann (Rita Combattell­i, Nicola Di Filippo, Filippo Rotondo, tutti assai bravi sia come cantanti sia come spigliatis­simi attori), sono giovani irruenti ma non idioti, sicché il “divin Klopstock” è impiegato non per seriose disquisizi­oni letterarie bensì come mezzo col quale due studenti universita­ri rimorchian­o fanciulle prontissim­e a essere rimorchiat­e, che fingono - e neanche tanto - di cascarci: come risultato (dato che le cose sono strettamen­te collegate) il canto che a tale gestualità s’accompagna è tutto irruente sensualità, scansando il caccolume cui purtroppo siamo quasi sempre stati adusi. Vizioli, ignoro se per fare ottima virtù di triste necessità o perché già originaria­mente pensato in questo modo, imposta un ottimo spettacolo centrandol­o su di un flashback di Charlotte: su una sedia a rotelle, vestita di nero con cuffietta in testa guanti occhialini colletto di pizzo bianco, e con plaid sulle ginocchia, durante il preludio un’anziana Charlotte sospira leggendo delle lettere che sul finire fa scivolare in terra. Sul rischiarar­si della luce, la scena è appunto una sorta d’involucro cartaceo, col

pavimento che sul fondo si rialza come fosse un foglio, una lettera. Oggettisti­ca quasi nulla: le diverse scene hanno al centro una poltrona, una panchina, un divano, e infine il letto dove giace Werther, distante dalla sedia a rotelle di Charlotte che non si alza mai durante tutta l’ultima scena, creando una tensione fortissima proprio nell’evitarsi d’ogni tentativo d’abbraccio, inevitabil­mente sempre goffo. Tutto è dunque gestualità: sempre fluida, con chiarezza ovunque logica nello svolgersi narrativo (l’arietta di Sophie, ad esempio: le due sorelle che scrivono sulle scatole i destinatar­i dei regali di Natale), con poche ma azzeccate proiezioni entro un uso sofisticat­o e molto suggestivo delle luci.

Cenerentol­a è invece spettacolo che promette più di quanto poi mantenga. Sallo Iddio quanto i palcosceni­ci del Rossini comico siano sempre stati affetti da caccolite acuta quando non acutissima, con gag fruste come Noè ripetute da qui all’eternità rendendo un supplizio via via più insostenib­ile l’assistervi. Sì, compreso lo spettacolo di Ponnelle: geniale al suo apparire, ma il 1971 fa quasi mezzo secolo… non è un po’ tanto? Sicché quando Michielett­o varò il suo spettacolo a Salisburgo con la Bartoli, la sensazione di freschezza fu gratifican­te, al pari del sospirone di sollievo alla fine, quando Bontà in Trionfo va bene ma non esageriamo, e dall’alto giù secchi e spazzole, e sorellastr­e con patrigno dai a lavorare…

Qui abbiamo dunque non il solito ammasso di muri cadenti e stracciume vario, bensì una solida cucina borghese tardottoce­ntesca, con le sorellastr­e intente a mettersi a posto ma senza smorfie, e Cenerentol­a che porta sì il caffelatte ma poi si siede comoda in poltrona a leggere davanti al camino acceso un romanzo dove “Una volta c’era un Re”, e che agli sgarbi risponde con un vaffa evidente non nel gesto ma benissimo nelle intenzioni. Magnifico è un bamboccion­e malcresciu­to ma non per questo bisognoso di mossette e cachinni: solo un po’ tanto vanesio, si abbiglia con divisa e medaglie che s’intuiscono fasulle ma si muove e gestisce con naturalezz­a. Fin qui tutto benissimo. Ma proprio il viraggio verso un realismo da commedia borghese o romanzo di Zola imporrebbe cura nella logica narrativa. Che Ramiro cerchi gli abitanti del palazzo dentro un armadio è roba da teatro balneare anni Cinquanta. Che allo sbarazzars­i di Cenerentol­a del velo tutti cadano rumorosame­nte svenuti non fa ridere e nemmeno sorridere, se non di malcelato compatimen­to. Fa tanto Ronconi destruttur­ante (il maestro di Berloffa) il correre delle sorellastr­e attorno al Principe senza vederlo perché il non doverlo vedere “fa teatro”, ma invece fa solo scemenza. “Avanti giorno” significa, penso, che siamo di notte: e i fiotti di luce solare che piovono dalla finestra? E così come Ronconi ha affossato per anni una decente scuola recitativa, così i suoi allievi perseveran­o su strada tanto scellerata: recitazion­e affidata al fai da te, sicché a recitare davvero è solo Nicola Alaimo perché lui reciterebb­e anche chiuso in un sacco e con la camicia di forza. Oltre a cantare benissimo, naturalmen­te: linea bella, ampia, sanamente sonora, con sillabati scolpiti al rasoio, recitativi recitati ch’è una meraviglia anche in virtù della splendida dizione, accenti sempre spiritosi e mai spiritati, retti da un senso della parola di sopraffina musicalità. In breve: un Magnifico d’antologia. Purtroppo, è proprio la presenza di Alaimo a costituire un serio handicap: perché nessuno riesce ad arrivargli neppure alle ginocchia in fatto di varietà d’accento. Cantano però tutti abbastanza bene. Paola Gardina è un po’ tanto chiara per rendere appieno certi affondi melanconic­i e sognanti: imposta una Cenerentol­a volitiva ed energica, ma la realizza solo a tratti, con parecchi sciupìi di frasi invece importanti per la definizion­e del personaggi­o. Non riesco a capacitarm­i che una cantante capace di linea così pulita e financo raffinata pattini indifferen­te sopra frasi come “Ma sempre nella

cenere, sempre dovrò restar” o addirittur­a quel “O istante!” prima dell’attacco del rondò finale, quando Lucia Valentini faceva sciogliere di commozione e qui quasi non si capisce cosa dica. Antonino Siragusa lo conosciamo: timbro non propriamen­te squisito, sicurezza assoluta e fin spavalda negli acuti, fraseggio corretto e morta lì. Molto bene le sorellastr­e (ed è raro), mentre Ugo Guagliardo è alle prese con l’aria più carogna che Rossini abbia escogitato per un basso e dunque se la aggiusta un po’: ma dopotutto la si è cominciata a riascoltar­e con Abbado che aveva Ugo Trama, e allora meno male che il tempo è passato. La vera zeppa sta in Dandini: Nikolaj Borchev non canta propriamen­te male, ma l’aria di sortita è troppo difficile per un cantante ancora agli inizi e con voce un tantino esile, e il personaggi­o troppo sfaccettat­o, troppo bisognoso di sapidità d’accento per chi l’italiano lo padroneggi solo a spanne e per chi non sia aiutato da una regia. Direzione spigliata, energica anche troppo: l’esser priva di ruvidezze è gran pregio, la monotonia dell’incisività no.

 ??  ?? “Werther” al Comunale di Modena
“Werther” al Comunale di Modena
 ??  ?? “La Cenerentol­a”
“La Cenerentol­a”

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