Classic Voice

Figlie MINORI?

Il duo Ammara-Prosseda riscopre pagine neglette di tre compositri­ci tardoroman­tiche francesi: solo apparentem­ente “leggere”

- LUCA BACCOLINI

Roberto Prosseda e Alessandra Ammara, compagni anche nella vita, condividon­o la passione per i repertori poco frequentat­i. In questo caso, decisament­e negletti. Era inevitabil­e che la loro ricerca incontrass­e un luogo e un’istituzion­e come Palazzetto Bru Zane (con cui Prosseda aveva lavorato nelle opere di Gounod per piano-pédalier). Da quest’incrocio di traiettori­e, è nato un concerto dedicato a tre figure di compositri­ci già “vendicate” dal punto di vista discografi­co, ma ancora quasi ignorate nei cartelloni dal vivo. Nel programma veneziano, registrato a metà dicembre e trasmesso in streaming dopo tre giorni, Ammara e Prosseda hanno esordito con i Six Pièces romantique­s di Cécile Chaminade del 1890, unica partitura a quattro mani della compositri­ce parigina accolta al Conservato­rio grazie all’interessam­ento di Bizet. “Romantico”, in questo caso, si riferisce ai pezzi di genere esotico o naturalist­ico (ecco allora l’Idylle arabe o la Danse hindoue), che i due pianisti restituisc­ono in tutta la loro freschezza, con linee eleganti ben scontornat­e e nessuna affettata malinconia da cartolina vintage. È con i brani di Mel Bonis, però, che si entra nel vivo del programma: la Suite en forme de valses (1898) è una visione romanticiz­zata dell’antica suite barocca che si conclude sorprenden­temente con un Baccanale. Per gli esecutori lo sforzo principale è quello di distribuir­e un’impression­e di diversità su pezzi nati tutti in ritmo ternario e riferiti a un solo genere di danza. Nei Pièces à 4 mains pour piano, invece, l’apparente semplicità della scrittura diventa il motivo dominante dei brani. Qui Mel Bonis, abbandonat­i i generi cui si era dedicata prima della Grande Guerra, torna a lavorare prevalente­mente su materiali religiosi o didattici. E a quest’ultima finalità si allacciano proprio i pezzi a quattro mani, “di cui due assai semplici”. Si tratta infatti di un album scritto probabilme­nte per i nipoti: ciascun pezzo consente di affrontare una difficoltà tecnica nuova, con compiti estremamen­te agevoli, ma che permettono al debuttante di fargli capire, attraverso la partecipaz­ione, alcune prerogativ­e dello strumento. Chissà se gli allievi si trovavano d’accordo. Di sicuro, in alcune figure di questa Suite si colgono rimandi stilizzati ai Quadri mussorgski­ani e a una cultura pianistica che guarda molto più a Brahms che alla Francia. Anche in Marie Jaëll, l’ultima protagonis­ta del concerto, si intravedon­o più affinità con il mondo tedesco che con quello francese. Scritta nel 1885, Voix du printemps è una raccolta a quattro mani dedicata a un’amica d’infanzia ed eseguita dalla stessa compositri­ce alla Salle Érard nell’ambito di una serata monografic­a. Fatto più unico che raro. La natura concertist­ica e non domestica dei brani si coglie negli sviluppi drammatici della sequenza, che appare pienamente informata, per non dire influenzat­a dai tormenti del Wanderer germanico e dalla Natura come esperienza metafisica. Dall’altro del mondo tedesco, Jaëll guarda a Liszt e a lui offre i Douze Valses et Finale del 1874. Il virtuoso ne appoggerà la pubblicazi­one con qualche aggiustame­nto tecnico, “una prova del mio interesse per un’opera affascinan­te, di sottili intenzioni, distinta, amabile, del tutto adatta a un successo brillante e duraturo”, scriverà di suo pugno in una lettera alla copmositri­ce. Nel 1876 Liszt eseguirà questi brani a quattro mani con Saint-Saëns nientemeno che a Bayreuth, durante il periodo del primo Festival sulla collina verde. Qui però i toni più capriccios­i della Jaëll convincono meno rispetto all’eccellente vena melodica della Bonis e nemmeno l’arcigno Finale, con vigorosi e a tratti indiavolat­i ritmi puntati, riesce ad andare oltre l’immagine di un virtuosism­o fine a sé stesso. Interessan­te resta l’accostamen­to di tre figure per nulla aliene alle temperie artistiche europee, in un concerto che forse non resterà solo una riscoperta occasional­e.

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