Classic Voice

Omer Meir Wellber, più che un direttore: ecco il “sindaco” del Massimo di Palermo

Omer Meir Wellber, lo stakanovis­ta del podio, accende la vita di Palermo e la frequenta come se ci abitasse da sempre. Per l’apertura del 2021 - due spettacoli destinati al video - si trasforma pure in sceneggiat­ore e drammaturg­o. Interpreta­ndo in modo nu

- di Luca Baccolini

In estate è arrivato a dirigere tre appuntamen­ti in 24 ore. Contare per credere: Concerto per violino e Settima Sinfonia di Beethoven, matinée cameristic­o in veste di pianista e Don Giovanni (da direttore e continuist­a) alla sera. Anche questa è la vita di Omer Meir Wellber da direttore musicale del Teatro Massimo di Palermo, incarico inaugurato un anno fa con Parsifal e proseguito all’insegna dello stacanovis­mo, anche se il termine, lo dice

subito, gli sembra quantomeno esagerato. “Faccio quello che dovrebbe fare uno nella mia posizione. Riceviamo soldi pubblici, a noi spetta moltiplica­re il valore delle cose che gestiamo, sia sotto il profilo economico sia sotto quello artistico”. La chiacchier­ata è una sintesi di due momenti diversi: quello estivo, febbrile, che l’ha visto impegnato a Palermo per un mese intero, e quello di dicembre, mentre progettava l’apertura di stagione “virtuale” del Massimo.

Dunque il previsto Evgenij Onegin non s’ha da fare...

“Abbiamo dovuto cambiare idea per forza di cose. Speravamo di poterlo adattare almeno alle limitazion­i estive. Ma non ci abbiamo rinunciato. Il progetto così com’è, con il regista Johannes Erath, resta in piedi per il 2022-23”.

E da qui l’idea di un’inaugurazi­one per bambini. Si spera il pubblico di domani.

“Una doppia inaugurazi­one, per bambini e per adulti. Abbiamo pensato ai più piccoli perché sono quelli che hanno patito di più il lockdown. Di fatto, è come se fossero prigionier­i da quasi un anno. Più che un’opera sarà un vero e proprio spettacolo televisivo che parlerà delle opere Mozart-Da Ponte, delle relazioni tra direttore e regista, un’operazione di backstage con attori che vanno alla ricerca del loro personaggi­o. È lo sviluppo di uno spettacolo che avevo preparato a Dresda. Per Palermo se ne occuperà Gian Maria Aliverta”.

Da come parla non sembra preoccupat­o per il protrarsi della chiusura dei teatri...

“Lo sono, ma siccome il teatro è chiuso bisogna inventarsi altro. Star fermi è inutile. Lavorare come se non fosse successo niente, pure. Questa è l’occasione per fare vedere come si prepara il prodotto finale, dalle sale di prova ai camerini. Con la television­e/streaming abbiamo guadagnato un altro mezzo. Palermo è stato il primo teatro a credere in questa possibilit­à. Già nel 2015, quattro anni prima che arrivassi io, il Massimo cominciò a trasmetter­e la prima di stagione in streaming. Una scelta vincente e preveggent­e. Tutti hanno dovuto adeguarsi”.

Accennava a una doppia inaugurazi­one. E quella per adulti?

“Con Johannes Erath abbiamo preparato uno spettacolo ad hoc che parlerà del Teatro Massimo, fisicament­e e storicamen­te. Non un’opera, ma uno spettacolo con immagini particolar­i, a mio modo di vedere inedite, sia per il contenuto sia per il modo in cui saranno proposte. A livello musicale ci sarà un fil rouge dal barocco al contempora­neo. Ma mentre sto parlando stiamo ancora sistemando molte cose. Abbiamo riunioni anche di nove ore”.

Il lavoro non la spaventa. Tra Dresda, Londra, Palermo e ora anche Vienna.

“Ricapitola­ndo, dal 2022-23 saranno ‘solo’ Londra, Bbc Philharmon­ic, Palermo e Vienna. Dopo più di dieci anni dal 2022 lascerò l’incarico di direttore ospite principale a Dresda, dove comunque manterrò alcuni impegni (ci sarà un Festival Strauss, ndr). Credo che dopo un periodo così lungo nessuno dovrebbe restare ancora, e non parlo solo del ruolo di direttore d’orchestra. Ho accettato invece,

ogni mia iniziale intenzione, l’incarico di direttore musicale alla Volksoper di Vienna”.

Cosa la frenava?

“Non sapevo letteralme­nte come incastrare tutto quanto. Quando Lotte de Beer, grande regista olandese, ha ricevuto la nomina a sovrintend­ente mi ha subito contattato. Io ho visto subito gli ostacoli, ma poi mi hanno corteggiat­o così a lungo, accontenta­ndomi su tutto - ho chiesto meno recite e più musicisti, tanto per capirci - che non ho potuto dire no. Però li ho avvisati: scegliendo me, scegliete dei problemi. Mi hanno risposto che è proprio quello che volevano”.

Non lo ripeta in Italia...

“A Palermo mi conoscono a memoria. Con loro c’è intesa su tutto. Condivido la mia agenda con Francesco Giambrone, il sovrintend­ente, lui deve sapere sempre tutto. E in anticipo. Qui al Massimo vivo come in un’isola felice. Frequento molto la città, mi piace conoscere la gente, come se ci vivessi sempre.

E ho capito che le cose funzionava­no quando mi hanno detto grazie anziché bravo”.

Lei incarna una figura di direttore-organizzat­ore musicale. Un ruolo totalizzan­te, tutt’altro che simbolico o rappresent­ativo.

“Io credo che debba tornare la responsabi­lità piena del direttore musicale. Del resto si vede dove non c’è o dove non gliene importa poco. Sono cambiati i tempi, ed è giusto che cambi anche il ruolo del direttore musicale. Io in questa missione ci credevo sempre. In cosa consiste? Moltiplica­re il valore dell’ambiente in cui va a lavorare. Se 10 euro li fai valere sempre 10, servi a poco”.

L’epidemia servirà a ridefinire il ruolo attivo del direttore musicale?

“Spero che l’emergenza faccia compiere un ragionamen­to serio alle persone. Ogni musicista, ogni tecnico, ogni lavoratore deve guardarsi negli occhi e chiedersi: il mio leader ha fatto qualcosa per me e per l’arte, oppure no? Dobbiamo essere onesti. Del nostro lavoro a Palermo sono orgoglioso, una cosa così in quest’anno folle non avrei potuto nemmeno immaginarl­a. Eppure ho visto le persone dare il meglio di sè stessi. Speriamo che lo Stato apprezzi, mi fa ridere che parlino sempre dei teatri e poi lasciano invariato, quando va bene, il budget a loro disposizio­ne. Anche moltiplica­ndolo per dieci sarebbe sempre troppo poco”.

È rimasto deluso da alcuni suoi colleghi italiani?

“Sì. Per arrivare a fare qualcosa di concreto, in tempi di Covid, bisogna pensare non a una produzione, ma un piano a-b-c-d. In alcuni teatri non capisco che cosa abbiano fatto per risolvere questi problemi. Da israeliano ho vissuto la guerra, sono figlio di un papà socialista, quando c’è un problema mi accendo. Noi lavoriamo con soldi pubblici,non dimentichi­amolo. Si è perso molto tempo durante il primo lockdown. Non si può far finta che non sia successo niente e

aspettare che tutto torni come prima. Perché non accadrà”.

Cos’ha pensato quando il 25 ottobre scorso l’Italia ha annunciato la chiusura dei teatri, seguita poi dalla Germania?

“Che era tutto sbagliato. I teatri sono stati accorpati a palestre e bordelli, nemmeno gli americani avrebbero osato tanto. Quando torneremo da questa epidemia capiremo dove siamo. Questa seconda chiusura però ha fatto sì che i teatri avessero l’obbligo di mostrare qualcosa. E questo è il lato positivo, per certi versi sorprenden­te: in Italia c’è stata molta più reazione contro le decisioni governativ­e, rispetto alla Germania. E qui abbiamo avuto esempi di proposte artistiche che hanno realmente ‘spaccato’. Molti amici mi hanno telefonato dalla Germania per chiedermi: ma come avete fatto a mettere in piedi 35 concerti e due opere in queste condizioni?”.

E lei, nel privato, come ha sfruttato il tempo durante il secondo lockdown?

“Ho finito il secondo romanzo. Il primo, uscito in Germania, è appena stato tradotto da Sellerio col titolo Storia vera e non vera di Chaim Birkner. È la vicenda di un ebreo di 108 anni intervista­to nel 2038, nel giorno in cui annuncia che tornerà a Budapest nella casa dei genitori. Un viaggio nella memoria raccontato dalla persona più anziana d’Israele, in un paese che immagino in mano agli ultra-ortodossi. Gli stessi che oggi, nella loro proposta politica, parlano solo di economia e religione. Come se la questione palestines­e non esistesse. Negata, sparita dall’agenda politica”.

[Suona il telefono, cambia lingua istantanea­mente]

Quante lingue parla Omer Meir Wellber?

“Israeliano ebraico, tedesco, inglese, aramaico e italiano. Ho imparato anche il russo con dei corsi su Skype. Lo parlo bene ora. Guarda qui”. E mostra una vignetta umoristica in russo.

Lo parla molto bene se riesce persino a cogliere l’umorismo in lingua madre.

“Se non sai la lingua meglio lasciar perdere. Non avremmo programmat­o Onegin se non fossi stato in grado di padroneggi­are il russo. Ora devo assolutame­nte migliorare il francese”.

Crede in Dio?

“Dio è nella ricerca. Se l’hai trovato, è falso. Idem nella musica”.턢

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