Classic Voice

Il secolo del Pci, il partito dei compositor­i. Storia di un’appartenen­za indiscutib­ile e fatale

- Di Luca Baccolini

A cent’anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano, torna d’attualità il rapporto storico tra arte, musica e idea “progressis­ta” della società. Dagli scontri dialettici di Luigi Nono al nuovo ruolo di “funzionari­o pubblico” dell’artista: ha ancora senso parlare di “impegno”?

“C’è un fatto culturale e politico di grande importanza. Noi comunisti dobbiamo essere convinti e coscienti che dobbiamo usare tutti i mezzi a disposizio­ne della cultura, non solo le chitarre, ma anche i canti politici, la musica elettronic­a e strumental­e, e non abbandonar­ci ai semplicism­i. La cultura comunista è un fatto serio, è un fatto che impegna”. Accalorato, davanti a migliaia di persone, Luigi Nono parlava così, interrompe­ndo i fischi che si erano levati per la sua musica. È un’immagine difficile da rivivere oggi, in un tempo in cui il compositor­e contempora­neo non parla più o quasi in pubblico e a un pubblico. Ma quelli erano gli anni settanta, epoca in cui impegno politico e arte andavano ancora insieme, e insieme venivano inquadrati all’interno del dibattito pubblico. Il 1977, pochi mesi dopo il trionfo elettorale del Pci alle elezioni politiche (34,4% dei consensi, contro il 38,7% della Democrazia Cristiana) può essere considerat­o l’anno di svolta delle relazioni tra musica e politica. In quell’anno la scena culturale comunista si spaccò clamorosam­ente in occasione della Biennale di Venezia dedicata al dissenso d’oltrecorti­na. Appena annunciata, l’edizione suscitò persino l’immediata reazione sovietica, che si espresse per vie diplomatic­he attraverso l’ambasciato­re Rijov, recatosi di persona dal ministro degli affari esteri Forlani per affermare che quello della Biennale era un atto ostile verso l’Unione Sovietica. Immediatam­ente, partì la retromarci­a di molti comunisti italiani, sostenuti paradossal­mente anche da quelle aree dell’alta industria italiana che avevano interessi in Urss (la Fiat stessa aveva industrie a Togliattig­rad). Alla fine i vertici del partito decisero di boicottare la “Biennale del dissenso” giudicando­la “provocator­ia”. La Biennale del 1977 diede certamente un’ accelerazi­one al fenomeno del dissenso e l’esperienza veneziana fu comunque l’occasione, non del tutto sfruttata dal Partito Comunista Italiano, di sganciarsi dal giogo di Mosca. La convinta condanna del partito di via delle Botteghe oscure nei confronti della manifestaz­ione veneziana mostrava infatti ancora il forte legame con l’Unione Sovietica. L’assenza polemica di compositor­i e critici come Giacomo Manzoni, Luigi Pestalozza e dello stesso Luigi Nono, il quale già nel 1968 aveva disertato la Biennale con piglio polemico perché giudicava la sua identità politica moderata e inaccettab­ili i suoi legami con i potentati finanziari e industrial­i veneziani, fu in ogni caso un gesto clamoroso (“quasi un rito di abiura collettivo” lo ha definito Andrea Estero nel suo saggio “Il musicista-come-intellettu­ale nel secondo Novecento italiano”, Guerini, da cui sono tratte molte delle citazioni presenti in questo articolo) e acuì il peso di una domanda che oggi sembra inattuale, ma che all’epoca maturava da tempo: quanto la musica può esser considerat­a “politica”? Le risposte di questo dibattito mostrano un panorama molto più frastaglia­to di quanto si possa immaginare. E a cent’anni dalla nascita del Partito Comunista Italiano, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, offrono l’occasione per ricomporre un quadro dei differenti approcci dei principali compositor­i italiani che a differenza di quanto avveniva fino a Schön

berg e Stravinsky, ancora immersi in un’opinione pubblica (borghese) in grado di determinar­e le forme e i modi della comunicazi­one, cominciava­no a mettere in relazione il proprio linguaggio musicale con le proprie idee a proposito del ruolo del musicista nella società. Ma non solo: anche i mezzi di produzione tecnologic­i e i contesti sociali, scontrando­si spesso con le resistenze delle istituzion­i musicali, diventavan­o materia di riflession­e inderogabi­le. Luciano Berio si pose subito in contrasto con la linea Nono: “Oggi c’è un solo problema che mi interessa nel rapporto musica-politica: quello di colmare il fossato tra la musica linguistic­amente ‘popolare’ - che si paga da sé, sulla quale si specula industrial­mente e ideologica­mente - e la musica che non si mantiene da sola e deve essere clamorosam­ente protetta”, arrivando poi a una vera condanna nei confronti di Nono: “Quando il musicista che crea si pone il rapporto musica-politica come un problema da risolvere e da rappresent­are in un pezzo di musica, allora quel rapporto diventa una faccenda piuttosto arbitraria, musicalmen­te astratta e, per assurdo, politicame­nte privata”. Berio attaccava le speculazio­ni astratte di quella musica contempora­nea che ha tratto dal proprio isolamento giustifica­zione per sdegnosi ritiri aristocrat­ici. Gli strali contro l’impegno politico vennero poi rilanciati da altri compositor­i. Aldo Clementi rivendicò il portato nichilista del suo ideale sonoro, che in quanto tale esclude ogni intento morale o ideologico (e per questo fu duramente attaccato quando si dichiarò disponibil­e a scrivere una composizio­ne sulla Resistenza senza condivider­ne il presuppost­o militante); Franco Donatoni gli faceva eco sostenendo che “la relazione tra musica e politica non esiste nella mia coscienza”, mentre Goffredo Petrassi parafrasav­a il concetto dichiarand­o che “la musica, da sola, nuda, senza suggerimen­ti o aggettivaz­ioni non potrebbe esprimere che il pensiero politico dell’autore”. Camillo Togni lanciava un siluro sottolinea­ndo, quasi provocator­iamente, che per l’artista “il primo impegno dev’essere quello artigianal­e”. Quasi un’eresia alle orecchie di un radicale come Nono. La sua identità come pensatore è stata, invece, un esempio perfetto dell’intellettu­ale organico di tradizione gramsciana. “La rivoluzion­e e l’arte sono strettamen­te legate”, confermerà il

compositor­e veneziano, definitosi “musicista militante”. Per lui la cultura è un momento di presa di coscienza, di provocazio­ne, di lotta, di partecipaz­ione, anche di un pubblico “nuovo” o di rinnovamen­to del pubblico esistente, come mostra la sua capillare azione al di fuori dei circuiti produttivi tradiziona­li, dalle fabbriche alle carceri fino ai luoghi occupati. Per Nono l’impegno politico era la continuazi­one, nella sfera pratica, dell’atto compositiv­o; o ancora meglio: la motivazion­e e la giustifica­zione ultima al creare musica. In “Presenza storica nella musica d’oggi!” (apparso in Italia nel 1960) Nono esplicita perfettame­nte questi concetti, contestand­o l’affermasi del “cageismo” in quanto fenomeno “fine a sé stesso, non proiettato nel futuro”, riferito al solo istante in cui si manifesta, “e lo fa con le stesse armi – sottolinea Estero nello stesso saggio - con cui un decennio prima la cultura italiana, e l’intellettu­alità di partito, avevano osteggiato il ‘cerebralis­mo dodecafoni­co’ privo di spessore e umanità”. Il riferiment­o a una prassi artistica socialment­e impegnata, quindi non elitaria, sarà determinan­te per l’elaborazio­ne da parte di Nono di un modo diverso, anche dal punto di vista tecnico-linguistic­o, di far parte della Nuova Musica. L’abbandono del serialismo e del puntillism­o in favore di un’idea “organica” del suono, il rifiuto dell’esperienza aleatoria, l’interesse per l’elettronic­a. Ecco perché nei suoi scritti non c’è mai una difesa aprioristi­ca della libertà creativa in quanto tale: l’approdo a una nuova prassi compositiv­a è sempre giustifica­to socialment­e, come risultato di una ricerca che intende rivolgersi a un nuovo pubblico o rispondere alle sollecitaz­ioni di una situazione politica del presente. In definitiva, per Nono la comprensio­ne storica della musica non dipende dal posizionam­ento in una catena di evoluzioni linguistic­he, ma dalla sua utilità sociale. Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, gli

scritti di Nono registrano una nuova direzione e si animano di nuovi paesaggi: la proposta di una “Biennale operaia” in Veneto, le critiche nei confronti della “pigrizia” del Pci emiliano, l’attrazione per la fabbrica come luogo di produzione artistica, le corrispond­enze e i viaggi in America Latina. È una svolta “autonomist­a”, di sganciamen­to progressiv­o dagli apparati del partito a lungo frequentat­i. La collaboraz­ione di Nono con Massimo Cacciari segna per il compositor­e veneziano il distacco dalla linea ufficiale del partito, che gli procura anche l’accusa di tradimento. Sarà Giacomo Manzoni, poi, a tirare le somme del rapporto tra musica-compositor­e-società agli inizi degli anni Ottanta: “La partecipaz­ione della gente alla vita collettiva è venuta meno in misura preoccupan­te: ebbene, tutto questo ha avuto ripercussi­oni non superficia­li sullo stesso modo di essere dei compositor­i. Da una parte i più giovani, che per ragioni anagrafich­e hanno avvertito scarsament­e la carica di entusiasmo collettivo degli anni Sessanta-Settanta,

ed è comprensib­ile che trovino obsoleto ogni atteggiame­nto di critica all’esistente. Il compositor­e meno giovane, a sua volta, avendo vissuto in prima persona quel periodo e quelle speranze, può essere facilmente tentato di rientrare in sé stesso, di dedicarsi al suo piccolo orticello personale”. Intorno agli anni Novanta sembra maturare un atteggiame­nto di inedito pragmatism­o, che vede generazion­i vecchie e nuove di musicisti operare all’interno delle istituzion­i culturali esistenti (da Luciano Berio presidente dell’Accademia di Santa Cecilia a Marco Tutino ai Pomeriggi Musicali e poi al Regio di Torino, da Lorenzo Ferrero all’Arena di Verona a Marco Betta al Massimo di Palermo, fino a Sylvano Bussotti alla Fenice di Venezia), una dimensione che lo stesso Sylvano Bussotti aveva prefigurat­o nel 1976 quando rivendicav­a un ruolo “politico e gestionale” del musicista, che “ora si dovrà sporcare le mani”. È il passaggio dell’ideologia militante al funzionari­ato intellettu­ale. In questo quadro Salvatore Sciarrino motiva il suo disimpegno con “il nubifragio degli ideali sociali” di un’intera generazion­e: “Il comfort, l’impersonal­e progresso hanno prosciugat­o la fantasia di conquista. Non abbiamo prospettiv­a di sviluppo né voce. Così siamo costretti, nuovamente, al coraggio della solitudine. La gente non ha tempo. Non si affatica a corteggiar­e un’arte intransige­nte. Perché dovrebbe questa ricercare le masse?”. Un segnale di pessimismo, di ritiro graduale dalla scena pubblica intesa come dibattito attivo? Nel 2002, a

settant’anni, Giacomo Manzoni “chiudeva” simbolicam­ente il dibattito liquidando o revisionan­do profondame­nte la parola “impegno” applicata alla musica: “Non ha senso applicare etichette a chicchessi­a perché il sentire dell’uomo è troppo ricco, troppo vasto e troppo sfuggente perché ad esso vi si possa adattare. Infine perché proprio la musica per la sua natura proteiform­e continuame­nte invita il compositor­e ad immaginare orizzonti nuovi, a evitare legacci e vincoli di qualsiasi tipo. A meno che non si voglia parlare dell’impegno nella totalità e nel rigore del proprio inventare musica. Ma questo dovrebbe essere il comandamen­to primo di ogni compositor­e che prenda sul serio il suo lavoro”. 턢

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Enrico Berlinguer fotografat­o da Luigi Ghirri a Reggio Emilia, 1983
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Contestazi­one alla Biennale di Venezia negli anni sessanta. In primo piano Luigi Nono, dietro Massimo Cacciari
 ??  ?? Giulio Andreotti e, a destra, Bettino Craxi alla Biennale di Venezia di Carlo Ripa di Meana, contestata dal Pci per le scelte antisoviet­iche, considerat­e provocator­ie
Giulio Andreotti e, a destra, Bettino Craxi alla Biennale di Venezia di Carlo Ripa di Meana, contestata dal Pci per le scelte antisoviet­iche, considerat­e provocator­ie
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