Enrico Onofri, quando l’orchestra diventa un quartetto allargato: succede alla Toscanini
La passione giovanile per la scienza, la formazione barocca, il violino e il podio. Enrico Onofri, nuovo direttore principale della Toscanini, spiega come trasformare una grande compagine sinfonica in un “quartetto allargato”
Un barocchista a capo della Toscanini. La nomina di Enrico Onofri alla guida dell’orchestra fedele ai valori del grande Arturo è stata da subito una novità degna di approfondimento. Più che una svolta, è sembrata una netta sterzata. A Parma, del resto, nel 2017 si era deciso di puntare sull’emergente Alpesh Chauhan, anglo-indiano classe 1990 cresciuto col mito di Zubin Mehta. Ma il suo percorso, scaduti i tre anni di contratto, non è proseguito. Nel 2018, frattanto, al vertice della Fondazione si è insediato Alberto Triola, che nel progetto di rilancio dell’orchestra, oltre a cambiarne il nome in “La Toscanini”, ha deciso di partire dai fondamentali. E forse proprio per questo ha chiamato un musicista che per vocazione e formazione guarda con maggior sensibilità al Settecento, spingendosi all’occasione fino al primissimo Ottocento. Enrico Onofri, classe 1967, apprezzato violinista, ma da tempo impegnato nella carriera di direttore (alla Haydn Philharmonie di Eisenstadt, all’Academia Montis Regalis e all’Orquesta Barroca de Sevilla), è cresciuto con Savall e Harnoncourt come mostri sacri. Dal primo, soprattutto, ha imparato a considerare il direttore non come un deus ex machina, ma come un membro dell’orchestra. “Il mio desiderio - ha detto Onofri presentandosi alla nuova platea - è lavorare con un gesto non impositivo alla ricerca di un’identità attraverso lo studio cameristico del grande repertorio classico”. Ecco perché accanto alla stagione principale ha voluto una nuova rassegna cameristica, il Salotto Toscanini, “un progetto - spiega il sovrintendente Alberto Triola - che avrà un’importante valenza di studio e di laboratorio non esclusivamente finalizzata alla esibizione di concerti pubblici”.
La ricerca di un’identità sonora attraverso lo studio cameristico è stata fin da subito il suo biglietto da visita presentandosi alla Toscanini. Dal punto di vista pratico, ci descrive i passaggi concreti di questo lavoro?
“Si tratta di un lavoro sia sulle partiture in programma, sia su opere emblematiche che ne coadiuvino lo studio, grazie a laboratori che precedono le prove per il concerto. Si approfondiscono così i vari linguaggi in termini di articolazioni, fraseggio, agogica, timbrica, diteggiature, e si esplorano insieme ai membri dell’orchestra le potenzialità artistiche. Nei laboratori si lavorano inoltre i brani da camera che i vari ensemble interni all’orchestra eseguiranno poi nel Salotto Toscanini, la stagione cameristica della Filarmonica. Lo scopo è quello di allargare l’interazione tra i musicisti”.
Viene quindi coltivato anche l’aspetto relazionale, insito nell’attività musicale.
“Quale che sia la dimensione della compagine, ritengo fondamentale raggiungere un gesto collettivo, un uso comune del respiro, stimolare una mimesi reciproca. Mi preme che attraverso tali mezzi gli aspetti narrativi e immaginifici della musica prevalgano su quelli puramente meccanici, sulle consuetudini e i tic strumentali, nel tentativo di far cantare e parlare il più efficacemente possibile gli strumenti”.
È un tipo di lavoro difficile da far accettare alle orchestre italiane?
“Nella mia esperienza all’estero, come direttore in residenza oppure ospite, sono stati in molti casi i musicisti stessi a caldeggiare tale approccio, e lo stesso è avvenuto qui in Italia con la Toscanini. L’unica difficoltà che si riscontra talvolta sono i tradizionali piani prova delle orchestre, per via della considerevole mole di informazioni che tale lavoro comporta, che va trasmessa in tempi spesso molto ristretti. È questa la ragione per la quale, da sempre, preparo io stesso le parti apponendo quante più indicazioni possibili, nel limite di ciò che è esprimibile attraverso i segni”.
E il pubblico come reagisce?
“Non ho mai percepito difficoltà nella ricezione da parte del pubblico, italiano o straniero. Un lavoro d’ispirazione cameristica punta infatti alla cura dei dettagli, a un deciso coinvolgimento dei musicisti e dunque a un’espressione viva, icastica, quale che sia il repertorio in oggetto: qualora si raggiunga tale obiettivo credo che il pubblico non abbia difficoltà ad accoglierne il messaggio”.
Lasciando stare per un momento le norme anti Covid, ha cambiato di molto la disposizione dell’orchestra?
“No, salvo disposizioni che assecondino particolari esi
genze dettate dalle opere stesse. Nel lavoro sul sinfonismo classico che sto conducendo con La Toscanini e in parallelo con la Haydn Philharmonie ad Eisenstadt, pur senza adottare le disposizioni storiche, che sono quasi sempre impraticabili nei contesti moderni, scelgo di solito impianti che almeno vi si avvicinino, per favorire la trasparenza delle parti e il dialogo delle sezioni nei passaggi contrappuntistici. Le regole del distanziamento anti-Covid, ovviamente, rappresentano un ostacolo enorme a questo lavoro”.
La mitografia sul direttore d’orchestra lo vuole, a volte lo esige, figura carismatica, impositiva, trascinante, come il Toscanini eponimo della sua nuova orchestra. È ancora così secondo lei?
“Un approccio di tipo cameristico richiede comunque una guida trascinante, indicazioni gestuali chiare, inequivocabili e una visione forte della partitura. È un equilibrio delicato e solo apparentemente contraddittorio: il direttore deve sì imporre, giocoforza, attraverso il gesto, ma prima di abbassare la bacchetta ha facoltà di condividere la logica delle sue scelte coi musicisti dell’orchestra, facendoli così partecipi della sua visione e delle ragioni che l’hanno generata. Un direttore è chiamato a una responsabilità e a un lavoro enormi, ma fa comunque parte dell’orchestra: sostengo l’idea di un gesto che possa al contempo imporre e abbracciare”.
Esistono compositori che ragionano più di altri in termini cameristici?
“Oltre ai grandi compositori del classicismo, tutti coloro che in qualche modo ne hanno successivamente raccolto l’eredità ragionano a mio avviso in termini cameristici: Mendelssohn, Rossini, Schubert, Schumann, Brahms, ma anche alcuni autori del Novecento. La chiave è il rispetto delle indicazioni del compositore, supportate dalle fonti coeve per decifrarne correttamente il significato, affrontate con rigore e intento comune da parte di tutti i musicisti, quasi l’orchestra fosse una sorta di quartetto allargato, in cui la massa non diluisce l’espressione e i dettagli ma anzi li esalta. È ciò che ho appreso alla scuola dalla quale provengo, quella mitteleuropea del grande violinista e direttore Sandor Végh, attraverso il mio maestro Carlo De Martini”.
Come si sfata l’idea comune che un’orchestra di matrice cameristica abbia suono esile?
“La bellezza e le qualità espressive del suono sono un dato imprescindibile per qualsiasi buon musicista. Il cantabile, il legato, il timbro, un uso dell’arco e del fiato idonei alla realizzazione la più efficace possibile delle dinamiche e delle articolazioni indicate in partitura, la flessibilità nell’adattarsi a spazi sonori differenti, credo appartengano tanto alla musica da camera quanto all’orchestra. Un approccio cameristico non implica alcun dimagrimento sonoro, bensì un attento uso della timbrica e dei volumi in relazione ai vari momenti della partitura, cioè un ampliamento dello spettro timbrico e dinamico”.
Fino a quali repertori sinfonici si può spingere questo approccio da “quartetto allargato”?
“È un tema che riguarda più la postura mentale degli interpreti che il repertorio, anche se ovviamente ci sono opere meno adatte. Un atteggiamento cameristico da parte di ciascun membro dell’orchestra im
plica flessibilità e attenzione al lato estemporaneo della musica, dunque reattività. Salvo la naturale difficoltà nel comunicare tra musicisti, che ovviamente cresce con l’aumentare dell’organico, in teoria il repertorio in sé non è un limite, qualora vi sia prontezza e un flusso di gesti comuni. Non è nulla di nuovo in realtà, ed è soprattutto un approccio storicamente coerente per la maggior parte del grande repertorio sinfonico”.
Ha un esempio in particolare?
“Penso alla stupefacente flessibilità agogica che ci testimonia un prezioso reperto sonoro del 1930, la registrazione della Quarta di Brahms della Staatsoper Orchester di Berlino diretta da Max Fiedler, anziano musicista vicino a Brahms, che invito i lettori ad ascoltare”.
Lei ha trascorso molto tempo a contatto con realtà spagnole e portoghesi, un mondo le cui traiettorie raramente convergono verso l’Italia, notoriamente più sedotta dal mondo sonoro mitteleuropeo o dell’Est Europa. Cosa ha raccolto da quell’esperienza?
“La realtà musicale iberica è molto varia a seconda dei contesti: molti dei suoi musicisti nei decenni passati sono emigrati in tutta Europa per studiare, e tornando hanno portato pensieri e scuole differenti. Per quanto riguarda le orchestre sinfoniche non ho trovato differenze con quelle italiane o di altri paesi, mentre nell’ambito della musica storicamente informata è stata piuttosto la penisola iberica ad essere sedotta dal pensiero italiano, anche se una forte identità è andata via via creandosi negli anni. A parte l’importante esperienza giovanile con Savall, sicuramente la collaborazione che ritengo più significativa è quella con l’Orquesta Barroca de Sevilla, con la quale ho avuto l’onore di riportare alla luce e registrare straordinarie opere inedite del barocco e classicismo andaluso, che giacevano da secoli nei vasti archivi delle cattedrali spagnole”.
Savall, insieme a Harnoncourt, è stato uno dei suoi punti di riferimento.
“Savall è sempre stato per me un modello di pazienza. Da Harnoncourt ho appreso tanto: forse l’insegnamento più importante è proprio la necessità di condividere con l’orchestra le ragioni della propria visione. Ricordo che alla mia prima prova con il Concentus Musicus Wien: si trattava di una faraonica Incoronazione di Poppea al Festival di Salisburgo. Non suonai nemmeno una nota: anziché provare, Harnoncourt per due ore ininterrotte preferì spiegare all’orchestra il significato dell’opera, il suo senso nel contesto storico in cui era stata composta e perché chiedeva di eseguirla in un certo modo: riteneva essenziale che ogni singolo musicista comprendesse e condividesse con lui quelle informazioni prima di provarla”.
La sua conversione al podio è stata la naturale conseguenza del suo ruolo di
Konzertmeister?
“Certamente: la bacchetta è stata una naturale trasformazione dell’archetto di Konzertmeister. Oltre ad esser stato un sogno sin dall’adolescenza, mi ha sicuramente mosso verso il podio l’esigenza bruciante di esplorare l’intera partitura attraverso l’esperienza di violinista e di interprete storicamente informato, per andare dove il mio violino da solo non può giungere”.
In passato ha raccontato che la sua passione d’infanzia era la Scienza. Ha influenzato la sua vocazione di musicista e di ricercatore “sul campo”?
“Senz’altro: l’amore per la natura e la conseguente curiosità per la natura delle cose mi animano da sempre. È stato però decisivo l’ambiente in cui sono cresciuto, una famiglia di antiquari e pittori che mi ha trasmesso l’amore e il rispetto verso il passato e l’arte: potevo forse ignorare la ricerca sulle prassi esecutive storiche?”.
Oltre al suo ultimo progetto discografico con Imaginarium Ensemble, dedicato al primo barocco italiano e ispirato proprio all’arte di Caravaggio, Bernini e Borromini, quali progetti la attendono a Parma?
“Dopo la Settima di Beethoven e due grandi sinfonie londinesi di Haydn, proseguirò con le maestose Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze, nella versione sinfonica scritta da Haydn per la città di Cadice, gioiello raramente eseguito in Italia, accompagnate dallo Stabat Mater di Pergolesi con le voci di Francesca Aspromonte e Marianna Pizzolato. Seguiranno programmi dedicati al repertorio sinfonico classico e romantico e un’incursione barocca con il Messiah di Handel”.턢