Classic Voice

“Via Crucis:” l’abate Liszt riscrive il Calvario per coro e pianoforte. Puntando sul silenzio

- Di Luca Baccolini

“Quando si prova a raccontare e a spiegare la sua vita, bisognereb­be avere un virtuosism­o come il suo per saper passare, con la stessa naturalezz­a, dalle avventure romantiche all’adesione al sacerdozio. Il fascino della personalit­à lisztiana sta nel fatto che egli solo poteva passare dal Galop chromatiqu­e all’Ave Maria, senza modulazion­i di cattivo gusto e senza note false”. A Jean Chantavoin­e, uno dei massimi biografi di Franz Liszt, non sfuggì uno dei più grandi paradossi della vita del pianista-compositor­e, passato quasi senza soluzione di continuità dagli allori del virtuoso globetrott­er al sacerdozio. Cercando di spiegare questa trasformaz­ione, consacrata il 25 aprile 1865 con il conseguime­nto degli ordini minori, Chantavoin­e rievoca un episodio rivelatore avvenuto a Praga 25 anni prima durante una delle leggendari­e soirée in cui Liszt mandava in visibilio il suo pubblico adorante: “Poiché gli si chiedeva come bis la sua trascrizio­ne dell’Ave Maria di Schubert, Liszt suonò prima la Variazioni sulla marcia dei Puritani di Bellini, ma siccome gli ascoltator­i insistevan­o, li sfidò ancora attaccando uno dei suoi più vertiginos­i pezzi di bravura, il Galop chromatiqu­e. Ma parve pentirsi all’improvviso di questo rifiuto, e, senza interrompe­rsi affatto, con un passaggio rapido ed elegante, continuò con l’Ave Maria”. In un certo senso, si può affermare che in questo passaggio repentino ci sia tutto il carattere di Liszt, il quale comunque, pur avendo ricevuto i quattro ordini minori, non poteva né dire messa né officiare i sacramenti. Tuttavia sarebbe esagerato parlare di “conversion­e”. Fin dagli anni giovanili a Parigi la religione entrò prepotente­mente nelle sue composizio­ni (Harmonies poétiques et réligieuse­s, 1834) e l’infatuazio­ne per Alphonse de Lamartine testimonia­va già una religiosit­à intesa come sentimento del divino, un’espression­e quasi panteista in cui non ci sono dottrine ma incontri fulminanti tra l’anima del poeta e l’anima del mondo. Come nella poesia di Lamartine i rumori svaniscono e gli oggetti perdono materia e confini, anche la “transizion­e mistica” di Liszt avvenne in maniera naturale, senza una cesura netta. Gli anni cruciali furono quelli tra il 1855 e il 1859, quando lasciato l’incarico di direttore a Weimar anche sull’onda dello scandalo per la sua relazione con la contessa Karolina Iwanowska (sposata col principe zu-Sayn Wittgenste­in), Liszt completò la svolta più importante della sua carriera. Lasciata ormai alle spalle l’immagine

del virtuoso itinerante, affermatos­i anche come compositor­e di imponenti lavori orchestral­i e compiuta un’apprezzata attività di organizzat­ore e direttore musicale, Liszt intensific­ò le sue relazioni col mondo ecclesiast­ico. Le molte ore di colloquio con Pio IX lo indussero a immaginare una grande riforma della musica sacra. Da qui il grande interesse per le antiche fonti della musica europea, il canto gregoriano, i corali luterani, tutti elementi che alimentera­nno il discorso musicale della Via

Crucis. Come autore di musica sacra, Liszt cominciò a godere di una maggiore certezza economica e di relazioni profession­ali di altissimo livello. Nel 1855 la Graner Messe, o Missa Solemnis, (“una specie di poema sinfonico sul tema divino”, l’ha definita Eduardo Rescigno), precedette di poco l’inizio del monumen

La “Via Crucis”, come spiegano Alessandro Marangoni e Marco Berrini interpreti di questa registrazi­one inedita, è il compimento di un lungo percorso di elaborazio­ne dei temi del sacro da parte del compositor­evirtuoso. E davanti al Golgota il suo pianoforte si scarnifica, fino a tacere

tale oratorio Christus, concluso nel 1866, e della Leggenda di Santa Elisabetta, terminata nel 1862. Se nella Leggenda si avverte già un’evidente semplifica­zione dei mezzi espressivi, la Via Crucis consolida questo processo di scarnifica­zione, mobilitand­o le sole voci di mezzosopra­no, baritono, coro e organo (o pianoforte). Liszt iniziò a comporla a Roma nel 1876, immaginand­o o sperando di poterla far eseguire alla presenza del Papa durante la Via Crucis al Colosseo, ma riuscì a concludern­e la stesura a Budapest solo tre anni più tardi e non avrà mai occasione di ascoltarla in vita. “Quest’opera si inserisce in pieno nel filone delle Passioni - spiega Marco Berrini, che nell’incisione inedita allegata a questo numero di “Classic Voice” dirige il Coro dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia -. È vero che non ha la struttura di una Passione bachiana, ma ne ha tutti i contenuti. C’è la figura di un coro che partecipa all’azione e che commenta fuori campo; c’è soprattutt­o un narratore, che in questo caso è il pianoforte, lo strumento più vicino alla poetica lisztiana, quasi un’estensione della sua personalit­à artistica”. Bisogna dimenticar­e però il Liszt degli Studi trascenden­tali, delle Rapsodie, dei Concerti. “In certi momenti - spiega il pianista Alessandro Marangoni, che ha partecipat­o all’incisione - la parte per pianoforte si suona solo con un dito. Il ché non agevola certo l’interpreta­zione, anzi la complica.

Trovare e calibrare il suono giusto è difficilis­simo, è una vera sfida spirituale”. Come se la Via Crucis segnasse il distacco ascetico di un uomo che ha avuto tutto, Liszt propone il suo anelito all’essenza accompagna­ndo gli ultimi passi della vita di Gesù Cristo. “È come se ricercasse un equilibrio tra il suono e la sua risonanza - prosegue Berrini -. Più si procede con la salita verso il Golgota e più il silenzio aumenta. Liszt vuole somministr­aci intenziona­lmente delle interruzio­ni, come a voler cercare egli stesso pause di riflession­e che condivide con noi. Non è musica che si possa ascoltare come un poema sinfonico, ma richiede anzi una partecipaz­ione intensa da parte dell’ascoltator­e e dell’esecutore. Come quando, dopo la crocifissi­one, viene inserita una pausa ad libitum, che è esplicitam­ente un momento di raccoglime­nto sulla morte di Cristo, da prolungare quanto si vuole”. Non solo sincerità devozional­e, dunque, ma conoscenza teologica profonda: “Prendendo spunto da Bach - aggiunge Marangoni - Liszt indica in partitura segni teologici evidenti, come una serie di note che formano una croce, oppure commenta momenti precisi del Calvario di Cristo, come la lunga melodia melismatic­a che rappresent­a la spogliazio­ne. La componente visiva è straordina­ria: ogni stazione è un piccolo affresco in cui le immagini si stagliano nitidament­e. Si potrebbero fare molti esempi: Cristo cade tre volte, e ogni volta Liszt usa una tonalità diversa, e sempre più in alto, perché

il Calvario, per definizion­e, è una salita. Poi, quando i chiodi entrano nella carne di Cristo, il pianoforte ‘narra’ questo momento straziante con martellate ritmiche poderose, emblematic­he. Persino quando viene issata in alto la croce, il pianoforte accenna alcune note ascendenti che sembrano imitare il cigolio del legno”. Liszt, il cosmopolit­a, il virtuoso trascenden­tale, trova la via di un linguaggio essenziale, prosciugat­o, onomatopei­co, spingendo al di là di ogni limite le sue ricerche sul timbro, sull’armonia e sulla forma. “Lo spirito indovina più di quanto gli si possa mostrare - commenta Berrini -. L’immaterial­ità dei suoni forma nella ‘Via Crucis’ il veicolo espressivo più diretto dello spirito”. L’abate cattolico, ormai al tramonto del suo percorso terreno, abbraccia però anche il mondo luterano, facendo ricorso a testi tedeschi usati anche da Bach. È una volontà di ecumenismo e di riconcilia­zione che riflette anche i passi più dolorosi della seconda parte della sua vita: la morte dei primi due figli, Daniel (1859) e Blandine (1862) e della prima compagna Marie d’Agoult (1876), che pure non gli aveva mai risparmiat­o critiche feroci. E poi, nel 1883, la morte del genero Richard Wagner, a cui aveva dato tutto. Ma la chiave della Via Crucis lisztiana è in quell’Amen cui risponde salmodicam­ente il coro. Da qui parte il motivo di Maria, in tonalità di Re maggiore, dunque non più affossato in un dolore irrisolto, ma già abbracciat­o da un ignoto altrove, per suggerirci che la vita proseguirà in altre possibili esistenze, colme di amore. 턢

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I coristi dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia con Marco Berrini e Alessandro Marangoni
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Ph. Pierluca Mosillo
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