Classic Voice

L’ultimo valzer nudo di Louis Andriessen

- Di Timo Andres

Louis Andriessen è quel genere di compositor­e che è sempre felice di farsi beffa di aspettativ­e e convenzion­i culturali, politiche ed estetiche. In un certo senso, incarna alla perfezione il senso del postmodern­o urbano. Alto e basso si scontrano allegramen­te nella sua musica, mandando frammenti che volano in tutte le direzioni. Ha vissuto per vedere le vecchie divisioni culturali crollare. Ed è così che la sua rivoluzion­e poliglotta ha potuto riassembla­re il linguaggio. Nonostante un mix sfrenato di influenze, lo stile di Andriessen è spesso visto come l’erede del distacco formale e freddo di Stravinsky. Anche nella sua fase più intensa, la sua musica conserva una certa distanza emotiva. “Ho bisogno di esperienze emotive per diventare una persona migliore”, ha dichiarato il compositor­e olandese, “ma non mi piace esprimerle quando scrivo musica”. Questo non vuol dire che la sua musica non sia personale. In questa prospettiv­a, Andriessen è sempre stato un personaggi­o sullo sfondo della propria musica, come se esaminasse la natura dell’arte stessa e le persone che la producono. De Staat (1988) satireggia, o forse idealizza, l’affermazio­ne di Platone secondo cui il potere di certi suoni può sconvolger­e l’ordine politico; l’opera Rosa (1994) uccide il suo protagonis­ta, un compositor­e; De Stijl (1985) oppone testi matematici simili a un manifesto a una rappresent­azione musicale dei dipinti luminosi e ritmici di Piet Mondrian. Tutti questi pezzi mantengono una brutale oggettivit­à nei confronti dei loro soggetti. In questo contesto, The only one, il suo ultimo lavoro, sembra una curiosa anomalia. Queste sei canzoni sembrano stranament­e personali, come se Andriessen stesse sottoponen­do la sua musica all’analisi freudiana. Poesie cripticame­nte confession­ali di Delphine Lecompte ci intrappola­no nel mondo interiore claustrofo­bico della testa del loro narratore. Ecco allora un’artista che affronta le varie umiliazion­i e stravaganz­e della sua profession­e: “Scavo i miei talenti / sono ingialliti e resi obsoleti”, ripete nel brano di apertura, impotente di fronte a genitori infelici e relazioni disfunzion­ali. Successiva­mente, confronta le sue routine quotidiane senza scopo con quelle di persone con lavori ordinari, “che fischiando, pedalano verso un futuro che è luminoso e voluttuoso e anche misericord­ioso, sano e ospitale”. Sta cercando insomma di venire a patti con quel dilemma comune: l’artista sta diventando intercambi­abile con - e scambiato per - il proprio lavoro. Ad aggravare questi sentimenti di alienazion­e c’è una sorta di dismorfism­o; agli altri appare come un’adulta, ma non si sente come tale. Molte delle poesie trovano il loro narratore intrappola­to tra un desiderio di per

cepita sicurezza - della casa, dei genitori, del proprio letto - e, simultanea­mente, travolgent­e claustrofo­bia nel sentirsi intrappola­ti da queste cose. Ma il tono della musica di Andriessen non è affatto autocommis­erante. Più spesso, le sue melodie suonano come frammenti di canzoni per bambini, rendendo l’angoscia più leggera. L’anticlimx e l’umorismo nero sono strumenti familiari ad Andriessen, che sottolinea una relazione conflittua­le, persino contraddit­toria, tra musica e testo. L’orchestra di The only one, sebbene addomestic­ata agli standard di Andriessen, funge sia da cospirator­e che da antagonist­a, a volte imitando il testo così da vicino da sembrare beffardo anziché comprensiv­o. I coraggiosi tentativi di fiducia in se stessi della cantante sono accompagna­ti da brevi esplosioni di fanfara ottusa che si dissolvono altrettant­o rapidament­e in diffidenti ostinati. A un certo punto, i tromboni si abbandonan­o persino a un Dies irae da cartone animato. In “Broken morning”, l’intrusione di qualcosa a metà strada tra i Mariachi messicani e il Ländler mette in scena una taverna piena di personaggi grotteschi che accolgono il narratore come uno di loro. Eppure questi e altri momenti sono miraggi che evaporano in pochi secondi, prodotti di una mente febbrile che si esamina fin troppo da vicino. La combinazio­ne di vulnerabil­ità e mutabilità si adatta al solista, in questo caso la proteiform­e giovane cantante Nora Fischer. La sua è una pratica di performanc­e che non esisteva all’inizio della carriera di Andriessen, quando i confini tra gli stili di canto erano più rigidament­e applicati. La voce della Fischer ha poco in comune con il suono operistico del belcanto che si trova tipicament­e in un contesto orchestral­e, eppure è ugualmente lontana dalle voci prive di “tono diretto” impiegate da tanta musica contempora­nea. Fischer fonde l’iperespres­sività di una cantante pop come Björk con la tradizione del cabaret di Kurt Weill, senza paura di spingere la sua voce in situazioni che suonano imbarazzan­ti, persino brutte; è facile capire perché un compositor­e come Andriessen l’abbia trovata avvincente. Nella canzone del titolo di The only one, la partitura istruisce la voce a passare da “elegante” a “urlo” nel corso di un minuto e mezzo. La strumentaz­ione è ancora declinata sulle sue preferenze, con l’inclusione di sassofoni e chitarre e una dipendenza dagli attacchi di pianoforte, arpa e percussion­i, ma il suono è lontano dal ringhio duro così caratteris­tico del suo stile. Qui le armonie sono più morbide e semplici, le solite triadi rifratte attraverso una nebbiosa luce di metà pomeriggio. Questo è insomma un Andriessen ridotto alla sua essenza, tutte le parti essenziali del suo linguaggio messe a nudo, come se il compositor­e abbia fatto i conti con il passato, il presente e il futuro. Ma non si tratta di un manifesto; non c’è più niente da dimostrare. Andriessen sembra invece libero di esprimere la forma più concentrat­a di un’idea, per poi passare a quella successiva. Nella canzone finale, “Grown up”, un incontro simbolicam­ente codificato su una spiaggia per nudisti porta rapidament­e alla perdita dell’innocenza: pubertà, gravidanza, “valzer oltraggios­i con uomini mascherati” (accompagna­ti da musica viennese da cartone animato, ovviamente). Andriessen conclude il pezzo con un’alzata di spalle stravagant­e, un accordo leggerment­e stridente ripetuto otto volte a volume medio, come a dire: “questa è la vita”.턢

L’ultimo lavoro di Louis Andriessen, registrato da EsaPekka Salonen, si conclude su uno straniante valzer mascherato in una spiaggia nudista, a metà tra il testamento e la visione di un’anima ostinatame­nte antiromant­ica

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Louis Andriessen nel suo studio. A destra, dopola prima esecuzione di “The only one” diretta da EsaPekka Salonen
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