Ezio Bosso, ecco la musica del corpo
Il minimalismo americano, vissuto con un coinvolgimento inedito. E il rapporto con la Natura condiviso con i grandi del rock. La musica di Ezio Bosso passava attraverso il corpo. Prima di tutti il suo. Anche come interprete
Il suo credo era “suonare come se fosse l’ultima volta”: fatale ma vero. Oltre alla miriade di video, ora ci sono ventidue dischi e venticinque-ventisei ore di musica per verificarlo senza i vapori inquinati del digital market, che spesso lo hanno avvolto fino a nasconderlo. Una raccolta definitiva (Sony), un box postumo e un titolo prevedibile: A Life in Music. A chi mai si è negata la medaglia di Una vita nella musica? A pochi, forse nessuno. Ma per Ezio Bosso il primo sostantivo, nella sua non trascurabile ovvietà, è la chiave per capirlo e ricordarlo. Bosso esisteva come musicista per la vita che pulsava fino al parossismo in ogni cosa suonasse, pensasse, scrivesse. Centinaia di autori ed esecutori sono rimasti grandi, nel tempo, senza trasmetterci alcun profondo fluido animale, corporeo. Bosso correva contromano, il che lo ha reso oggetto d’amore da parte dell’entità sfuggente, magmatica ma generosa del Pubblico, quanto degno soltanto di un sopracciglio alzato in chi “sa di musica”. Quanto peso abbia poi avuto la cupola tragica che l’ha tenuto sotto di sé per molti anni della vita, corta assai, è irrilevante. Ho sempre guardato con sospetto i vicini di poltrona, concert-goers, colleghi, critici, commentatori, cui mai, nemmeno per un istante, che fosse la Settima di Beethoven e il Sacre di Stravinskij (ma anche Whole Lotta Love dei Led Zeppelin o Bitches Brew di Miles Davis), scappava e scappa un battere del piede, uno scatto della mano, un ondeggiare del cranio. Niente di niente. Non un sussulto. Li guardavo, li guardo, e ancora non riesco a cancellare il punto interrogativo che mi si stampa in faccia. Scritto da una presuntuosa certezza: il corpo immobile accende la spia di un’assenza di vita (nella musica). E invece. Che improvvisasse al contrabbasso, abbandonato nel 2005 dopo l’audizione per un’orchestra di Francia che gli aveva fatto capire quel che sapeva: non essere uomo da leggio di fila; che suonasse come un sol uomo con i compagni del Quartetto di Torino; che dirigesse sé stesso o il repertorio, da Marcello a Beethoven; che scrivesse musica da camera, per molti o pochi archi, per orchestra estesa, Ezio Bosso faceva l’amore con la musica e poteva lasciare inerti solo i più vicini al rigor mortis
della passione.
L’autore nasceva dal contrabbasso e dal violoncello, che suonava come dio comanda. Il suono, i timbri, la sintassi, la morfologia della musica che componeva, erano generati dagli archi che già giovanissimo governava da solista eccellente, senza discussioni.
Se ne viene investiti fin da subito con il Quartetto n. 2 “The Nights” e il n.3 “The Way of 1000 and One Comet” (vol. 1), con “The EsoConcerto”, piegato sul violino di Giacomo Agazzini e il Buxusconsort (vol. 2), con il Quartetto n. 5 “Music for The Lodger” (vol. 3), venato di lirismi e meditazioni. Il piccolo organico era la prima dimensione. Gli altri, la sua dilatazione. Nei Seasong 1 to 4, in altre piccole storie in cui compare il mare, sua passion predominante, nei Six Breaths, (vol. 7), nelle Road Sign Variatons (vol. 5) accanto agli archi sbuca il pianoforte, di cui Bosso non fu mai padrone, e lo sapeva, e per il quale pensò e registrò un solo progetto a lunga gittata: The 12th Room (vol. 10, doppio). Pianoforte essenziale, schematico, spesso consegnato a semplici rintocchi come in Diversion, Street Kisses e nelle introduzioni ai sei Respiri dei London Cellos (Six Breaths, vol. 7). Pianoforte antivirtuosistico, ben diverso dalla lingua che Bosso parlava con gli archi.
Gli affondi nella forma grande, molto rimodellata, hanno ancora il segno dell’acqua nella pagina forse più ambiziosa, la Sinfonia n.1 “Oceans” (vol. 6), e della terra nella Sinfonia n.2 “Under the Trees Voices” (vol. 7), più assemblata per frammenti e qui registrata live al festival Suoni delle Dolomiti, con applausi tra i movimenti; perché Bosso era anche questo, afflato col pubblico senza diaframmi. Entrambe corrono lungo le linee che Bosso compositore sente necessarie per primo istinto: l’eccitazione ritmica, l’iterazione, l’ostinato. Incancellabile il segno, su tutto, della ripetitività americana; quasi celebrata in Oceans, intrisa com’è di Glass. Ma una ripetitività in cui si lasciano riconoscibili le tracce delle perfette macchine seisettecentesche, sulle quali si sono modellati quasi tutti i motori ritmici di ogni tempo. Seconda nota dominante: il lirismo, la meditazione, quasi sempre nel segno della Natura. Non c’è titolo, nella musica di Bosso, che non la evochi: luce, oscurità, nuvole, neve, pioggia, lampi, tuoni, brezze e respiri, che nell’Aria finale di Music for Weather Elements hanno bisogno del canto sospeso di una voce femminile in eco (vol. 9). E cielo, stelle, albe, notti, alberi, foglie, ma soprattutto venti e onde, molte onde, motore liquido delle lunghe corse ispirate a una “libertà rock” che condivideva con tutti gli amici musicisti (Giacomo Agazzini, Manuel Zigante, Unberto Fantini, Claudia Ravetto), tirati fino allo stremo in prove senza un attimo di respiro nelle quali “devi permetterti di sbagliare, e sbagliando, ritrovarti”. Per Bosso, la musica era anche questo: errore, senza paura ma con riscatto. L’interprete. Nei dischi dal vivo a Venezia, al Festival Stradivari di Cremona e nell’ultimo “Per Claudio” di Bologna, dedicato ad Abbado, c’è di che riflettere sulla forza con cui Bosso abbracciava il pubblico, soprattutto “generalista”, alzandosi in volo da quel che altri avevano scritto, fossero Bach, Mendelssohn, Ciaikovskij, Prokof’ev (Pierino e il lupo con la narrazione di Silvio Orlando può stare accanto a molte altre versioni senza diventare rossa di vergogna), Rossini, Mozart e infine Beethoven (la Settima del Concerto per Claudio è anch’essa una celebrazione della vita e dell’eros, altro che danza, che invano chiederemmo a decine di direttori “di un certo livello” (copyright Zangrillo). Infine, il nostro tempo. Ezio Bosso era sintonia con la musica cosiddetta contemporanea? E quale? In The Roots (A Tale Sonata), risuonano Fratres di Arvo Pärt e La Louange à l’éternité de Jésus dal Quartetto per la Fine del Tempo di Messiaen, mentre alla fine del concerto dal vivo a Cremona, in cui Bosso onora il tema del festival eseguendo Alessandro Marcello e Bach, alla fine scorrono i quattro minuti e trentatré secondi muti di 4’33” di Cage, il pianoforte non suonato che ha stravolto l’estetica della musica occidentale.
Vi paiono programmi e orizzonti di uno sprovveduto? 턢