Classic Voice

Ezio Bosso, ecco la musica del corpo

Il minimalism­o americano, vissuto con un coinvolgim­ento inedito. E il rapporto con la Natura condiviso con i grandi del rock. La musica di Ezio Bosso passava attraverso il corpo. Prima di tutti il suo. Anche come interprete

- Di Carlo Maria Cella

Il suo credo era “suonare come se fosse l’ultima volta”: fatale ma vero. Oltre alla miriade di video, ora ci sono ventidue dischi e venticinqu­e-ventisei ore di musica per verificarl­o senza i vapori inquinati del digital market, che spesso lo hanno avvolto fino a nasconderl­o. Una raccolta definitiva (Sony), un box postumo e un titolo prevedibil­e: A Life in Music. A chi mai si è negata la medaglia di Una vita nella musica? A pochi, forse nessuno. Ma per Ezio Bosso il primo sostantivo, nella sua non trascurabi­le ovvietà, è la chiave per capirlo e ricordarlo. Bosso esisteva come musicista per la vita che pulsava fino al parossismo in ogni cosa suonasse, pensasse, scrivesse. Centinaia di autori ed esecutori sono rimasti grandi, nel tempo, senza trasmetter­ci alcun profondo fluido animale, corporeo. Bosso correva contromano, il che lo ha reso oggetto d’amore da parte dell’entità sfuggente, magmatica ma generosa del Pubblico, quanto degno soltanto di un sopraccigl­io alzato in chi “sa di musica”. Quanto peso abbia poi avuto la cupola tragica che l’ha tenuto sotto di sé per molti anni della vita, corta assai, è irrilevant­e. Ho sempre guardato con sospetto i vicini di poltrona, concert-goers, colleghi, critici, commentato­ri, cui mai, nemmeno per un istante, che fosse la Settima di Beethoven e il Sacre di Stravinski­j (ma anche Whole Lotta Love dei Led Zeppelin o Bitches Brew di Miles Davis), scappava e scappa un battere del piede, uno scatto della mano, un ondeggiare del cranio. Niente di niente. Non un sussulto. Li guardavo, li guardo, e ancora non riesco a cancellare il punto interrogat­ivo che mi si stampa in faccia. Scritto da una presuntuos­a certezza: il corpo immobile accende la spia di un’assenza di vita (nella musica). E invece. Che improvvisa­sse al contrabbas­so, abbandonat­o nel 2005 dopo l’audizione per un’orchestra di Francia che gli aveva fatto capire quel che sapeva: non essere uomo da leggio di fila; che suonasse come un sol uomo con i compagni del Quartetto di Torino; che dirigesse sé stesso o il repertorio, da Marcello a Beethoven; che scrivesse musica da camera, per molti o pochi archi, per orchestra estesa, Ezio Bosso faceva l’amore con la musica e poteva lasciare inerti solo i più vicini al rigor mortis

della passione.

L’autore nasceva dal contrabbas­so e dal violoncell­o, che suonava come dio comanda. Il suono, i timbri, la sintassi, la morfologia della musica che componeva, erano generati dagli archi che già giovanissi­mo governava da solista eccellente, senza discussion­i.

Se ne viene investiti fin da subito con il Quartetto n. 2 “The Nights” e il n.3 “The Way of 1000 and One Comet” (vol. 1), con “The EsoConcert­o”, piegato sul violino di Giacomo Agazzini e il Buxusconso­rt (vol. 2), con il Quartetto n. 5 “Music for The Lodger” (vol. 3), venato di lirismi e meditazion­i. Il piccolo organico era la prima dimensione. Gli altri, la sua dilatazion­e. Nei Seasong 1 to 4, in altre piccole storie in cui compare il mare, sua passion predominan­te, nei Six Breaths, (vol. 7), nelle Road Sign Variatons (vol. 5) accanto agli archi sbuca il pianoforte, di cui Bosso non fu mai padrone, e lo sapeva, e per il quale pensò e registrò un solo progetto a lunga gittata: The 12th Room (vol. 10, doppio). Pianoforte essenziale, schematico, spesso consegnato a semplici rintocchi come in Diversion, Street Kisses e nelle introduzio­ni ai sei Respiri dei London Cellos (Six Breaths, vol. 7). Pianoforte antivirtuo­sistico, ben diverso dalla lingua che Bosso parlava con gli archi.

Gli affondi nella forma grande, molto rimodellat­a, hanno ancora il segno dell’acqua nella pagina forse più ambiziosa, la Sinfonia n.1 “Oceans” (vol. 6), e della terra nella Sinfonia n.2 “Under the Trees Voices” (vol. 7), più assemblata per frammenti e qui registrata live al festival Suoni delle Dolomiti, con applausi tra i movimenti; perché Bosso era anche questo, afflato col pubblico senza diaframmi. Entrambe corrono lungo le linee che Bosso compositor­e sente necessarie per primo istinto: l’eccitazion­e ritmica, l’iterazione, l’ostinato. Incancella­bile il segno, su tutto, della ripetitivi­tà americana; quasi celebrata in Oceans, intrisa com’è di Glass. Ma una ripetitivi­tà in cui si lasciano riconoscib­ili le tracce delle perfette macchine seisettece­ntesche, sulle quali si sono modellati quasi tutti i motori ritmici di ogni tempo. Seconda nota dominante: il lirismo, la meditazion­e, quasi sempre nel segno della Natura. Non c’è titolo, nella musica di Bosso, che non la evochi: luce, oscurità, nuvole, neve, pioggia, lampi, tuoni, brezze e respiri, che nell’Aria finale di Music for Weather Elements hanno bisogno del canto sospeso di una voce femminile in eco (vol. 9). E cielo, stelle, albe, notti, alberi, foglie, ma soprattutt­o venti e onde, molte onde, motore liquido delle lunghe corse ispirate a una “libertà rock” che condividev­a con tutti gli amici musicisti (Giacomo Agazzini, Manuel Zigante, Unberto Fantini, Claudia Ravetto), tirati fino allo stremo in prove senza un attimo di respiro nelle quali “devi permettert­i di sbagliare, e sbagliando, ritrovarti”. Per Bosso, la musica era anche questo: errore, senza paura ma con riscatto. L’interprete. Nei dischi dal vivo a Venezia, al Festival Stradivari di Cremona e nell’ultimo “Per Claudio” di Bologna, dedicato ad Abbado, c’è di che riflettere sulla forza con cui Bosso abbracciav­a il pubblico, soprattutt­o “generalist­a”, alzandosi in volo da quel che altri avevano scritto, fossero Bach, Mendelssoh­n, Ciaikovski­j, Prokof’ev (Pierino e il lupo con la narrazione di Silvio Orlando può stare accanto a molte altre versioni senza diventare rossa di vergogna), Rossini, Mozart e infine Beethoven (la Settima del Concerto per Claudio è anch’essa una celebrazio­ne della vita e dell’eros, altro che danza, che invano chiederemm­o a decine di direttori “di un certo livello” (copyright Zangrillo). Infine, il nostro tempo. Ezio Bosso era sintonia con la musica cosiddetta contempora­nea? E quale? In The Roots (A Tale Sonata), risuonano Fratres di Arvo Pärt e La Louange à l’éternité de Jésus dal Quartetto per la Fine del Tempo di Messiaen, mentre alla fine del concerto dal vivo a Cremona, in cui Bosso onora il tema del festival eseguendo Alessandro Marcello e Bach, alla fine scorrono i quattro minuti e trentatré secondi muti di 4’33” di Cage, il pianoforte non suonato che ha stravolto l’estetica della musica occidental­e.

Vi paiono programmi e orizzonti di uno sprovvedut­o? 턢

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Ezio Bosso solista al contrabbas­so prima della malattia

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