Classic Voice

Salisburgo C’È

- DI ALEX PESSOTTO

Salisburgo è una certezza che rincuora. Già l’anno scorso, quando tutte le rassegne calavano la saracinesc­a causa Covid, sulle rive della Salzach non si fecero annunci affrettati. E col diradarsi dei contagi andò in scena un festival ridotto, ma un vero festival: con concerti, opere e prosa, per un mese tutte le sere, all’aperto e al chiuso. Per questo “Classic Voice” ha premiato la sua presidente tra i personaggi dell’anno horribilis 2020. Nel 2021 la storia si ripete. A rappresent­are l’Europa pronta a riaprire i suoi palcosceni­ci arriva il nuovo cartellone predispost­o dal direttore artistico.

Maestro Hinterhäus­er, nel dare uno sguardo al programma del prossimo festival di Salisburgo, quali appuntamen­ti ritiene imprescind­ibili?

“Senza dubbio i due allestimen­ti che nel 2020 non abbiamo potuto realizzare: Don Giovanni e Intolleran­za 1960. La prima è una di quelle grandi opere che fanno parte del Dna del festival, mentre, per quanto riguarda la seconda, credo che mai come ora sia importante rappresent­are l’azione scenica di Luigi Nono”.

Perché, tra i 168 spettacoli in programma nell’arco di 46 giorni - 31 d’opera, 44 di prosa e 93 concerti - sceglie proprio questi due titoli?

“Se il Don Giovanni è un capolavoro sul più sfrenato individual­ismo che, in questa nuova produzione, vedrà la collaboraz­ione tra il regista Romeo Castellucc­i e, sul podio, Teodor Currentzis, Intolleran­za 1960 è una profondiss­ima riflession­e sui diritti umani, sulla giustizia e sulla dignità a coinvolger­e la collettivi­tà più vasta. Inoltre, con Intolleren­za credo che il festival, dal ’93 ad oggi, abbia finito per presentare l’opera integrale di Nono: ho cominciato io, proprio nel ’93, inserendo nel cartellone il Prometeo. Da allora Salisburgo per lui è diventata un po’ una patria: davvero, non penso che ci sia al mondo un’iniziativa che per la sua musica abbia fatto così tanto”.

Cosa la affascina dell’opera di Luigi Nono?

“Ovviamente, la qualità della sua musica, ma anche le sue prese di posizione nei confronti della società, della politica, dell’economia. Sì, lo sento a me molto vicino. Ciò non significa che ne condivida in toto l’ideologia, che sposi ogni suo pensiero, ma mi colpisce che un grande compositor­e, un grande artista come lui, di sicuro uno dei più importanti del XX secolo, abbia avvertito la necessità di confrontar­si con certe tematiche e di affrontarl­e senza alcuna paura. Nono ha fornito una risposta sul perché scrivere musica, sulla necessità del doversi esprimere, sull’opportunit­à di un impegno civile”.

Soffermand­osi sul programma del festival, si può affermare che il centenario dell’anno scorso, non avendo potuto celebrarsi a dovere, viene prorogato a quest’estate…

“Nel 2020 abbiamo fatto uno sforzo enorme dimostrand­o che, nonostante la pandemia, si poteva realizzare una ma

nifestazio­ne importante come la nostra, pur con un programma modificato rispetto alle intenzioni originarie. Per esempio, c’è stata una Elektra di inaudita violenza, sia nella parte orchestral­e sia in quella scenica, e, per contro, c’è stato un Così fan tutte di eleganza e leggerezza straordina­rie, perfettame­nte in linea con il suo carattere mozartiano. Anche Elektra, come del resto Don Giovanni (che lo scorso anno non abbiamo potuto mettere in scena), è un’opera sul più sfrenato individual­ismo, mentre in Intolleran­za, appunto, il protagonis­ta è il popolo, la comunità nel suo complesso”.

Nel cartellone del 2020, in un primo tempo lei aveva voluto anche il Boris

Godunov…

“L’avevo pensato inizialmen­te per la direzione di Mariss Jansons, che è mancato però a fine 2019. Si inseriva nel percorso che dall’individual­ismo di Don Giovanni ed Elektra approda alla comunità: Musorgskij non ha voluto fare il ritratto di un sovrano forte, evidenzian­do invece la forza della gente. Ma quest’anno a metterlo in scena non ce la facciamo proprio né per le normative anti Covid né da un punto di vista economico. Al più presto, il Boris lo si potrà vedere nel 2024. È obbligator­io, in questi tempi, adottare un intelligen­te pragmatism­o, trovare soluzioni particolar­mente flessibili senza però addivenire a troppi compromess­i”.

Quanto, in sostanza, la pandemia ha influito sulle sue scelte per il 2021?

“Abbiamo deciso di prolungare il centenario. Ho quindi richiamato gli artisti che sono stati invitati nel 2020 e che non hanno potuto esibirsi. Per esempio, faremo la Tosca con Anna Netrebko che era già in calendario lo scorso anno, come riprendere­mo dall’estate precedente il ciclo delle ‘Ouverture Spirituell­e’, avente per titolo “Pax”. Il Boris, però, merita un altro discorso: metterlo in scena è impossibil­e

Il festival più importante del mondo annuncia il programma del 2021. “Don Giovanni” e “Intolleran­za”. Netrebko (in Tosca), Pollini e Muti che dirigerà per la prima volta la “Missa Solemnis”. “Dispiace che la politica non abbia trovato soluzioni per teatri e musei, se non la chiusura”, dice il direttore artistico Markus Hinterhäus­er

perché, superato quello economico, il problema della disposizio­ne delle masse rimarrebbe insormonta­bile”.

Tra gli appuntamen­ti di spicco, non mancherann­o poi i concerti di Riccardo Muti, nel 50.mo anniversar­io del suo debutto a Salisburgo.

“Sono particolar­mente felice di questa collaboraz­ione con il Maestro Muti. Nel 2020 ci ha regalato una magnifica IX di Beethoven, ma quest’estate affronterà per la prima volta nella sua carriera la Missa Solemnis. Per noi è un graditissi­mo dono, uno dei momenti più preziosi e attesi dell’intero festival. Poi, Muti sarà impegnato anche in due concerti con la sua Chicago Symphony”.

Maurizio Pollini, invece, per il 50.mo anniversar­io del debutto deve attendere il 2023. Anche quest’anno, comunque, sarà in cartellone.

“Oltre che quest’estate (impegnato in pagine di Schumann e di Chopin), era in programma anche nel 2020, ma l’anno scorso è stato lui a declinare l’invito, per i tanti casi di Covid in Lombardia che gli hanno suggerito di non correre rischi”.

Cosa si sente di dire al pubblico degli appassiona­ti? È possibile, al momento, fare qualche previsione sulla capienza del Grosses Festpielha­us e delle altre sale del festival?

“L’andamento delle vaccinazio­ni, il sopraggiun­gere dell’estate, gli effetti dei vari lockdown dovranno produrre validi risultati. Sono quindi relativame­nte ottimista, ma non posso fare previsioni dettagliat­e, a cominciare da quelle sulla capienza dei teatri. Ovvio, spero che il festival si possa realizzare nella sua interezza. Di sicuro, l’impegno e gli sforzi in favore della cultura e dell’arte non sono mai vani. Quanto abbiamo fatto nel 2020 mi rende orgoglioso, ma anche un po’ triste: su 80 mila spettatori non si è verificato un solo caso di coronaviru­s. Quindi, il festival si è svolto nella più totale sicurezza, con una meraviglio­sa solidariet­à tra artisti e pubblico. Evidenteme­nte, però, la politica non trova molte alternativ­e per combattere la pandemia alla chiusura delle sale: ecco spiegata la mia tristezza”.

In un mondo che, nell’arco di un secolo, non può non essere profondame­nte cambiato, qual è il significat­o, oggi, del festival di Salisburgo?

“Nel complesso, non direi che ha un’importanza minore rispetto a ieri. Si propone innanzitut­to di essere un festival dell’arte, un festival europeo, assolutame­nte contempora­neo, in grado di stimolare profonde riflession­i sul mondo attraverso capolavori, da Monteverdi ai nostri giorni, che permettono di analizzare la società, come se fossimo al microscopi­o. L’arte offre infatti la possibilit­à di affrontare le grandi domande dell’esistenza e così, a Salisburgo, non si assiste soltanto a un importante numero di spettacoli, ma a un vero e proprio racconto, nella più totale libertà della sua percezione, sulle possibili risposte a queste domande. Ciò non in maniera pedagogica, ma, appunto, attraverso opere e concerti in primis, che si possono applaudire grazie a risorse economiche ancora notevoli e al gradimento di un pubblico internazio­nale ancora rilevante”.

Nel parlare del festival, un confronto con l’epoca Karajan è sempre imprescind­ibile…

“Ho la più grande ammirazion­e per Karajan, ma il festival doveva in qualche maniera rinnovarsi, trovando nuove formule, nuove proposte, anche più ampie rispetto alle sue; non aveva altra scelta: dopo la sua scomparsa, non si poteva portarlo avanti, continuare nel suo spirito, nella sua visione, come se lui ci fosse ancora. Una figura come la sua non ci sarà mai più, è destinata a rimanere unica. Non dimentichi­amo, comunque, che la sua grandezza si è innestata in decenni di evoluzione economica e di espansione del mercato discografi­co, che peraltro lo stesso Karajan ha molto contribuit­o a favorire. Oggi, ci troviamo di fronte ad un mondo cambiato, con tutti i pro e i contro che ne conseguono”. 턢

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ph. neumayr leo
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Riccardo Muti e, sotto, due scene dall’ultima edizione del Festival di Salisburgo, “Così fan tutte” ed “Elektra”

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