Salisburgo C’È
Salisburgo è una certezza che rincuora. Già l’anno scorso, quando tutte le rassegne calavano la saracinesca causa Covid, sulle rive della Salzach non si fecero annunci affrettati. E col diradarsi dei contagi andò in scena un festival ridotto, ma un vero festival: con concerti, opere e prosa, per un mese tutte le sere, all’aperto e al chiuso. Per questo “Classic Voice” ha premiato la sua presidente tra i personaggi dell’anno horribilis 2020. Nel 2021 la storia si ripete. A rappresentare l’Europa pronta a riaprire i suoi palcoscenici arriva il nuovo cartellone predisposto dal direttore artistico.
Maestro Hinterhäuser, nel dare uno sguardo al programma del prossimo festival di Salisburgo, quali appuntamenti ritiene imprescindibili?
“Senza dubbio i due allestimenti che nel 2020 non abbiamo potuto realizzare: Don Giovanni e Intolleranza 1960. La prima è una di quelle grandi opere che fanno parte del Dna del festival, mentre, per quanto riguarda la seconda, credo che mai come ora sia importante rappresentare l’azione scenica di Luigi Nono”.
Perché, tra i 168 spettacoli in programma nell’arco di 46 giorni - 31 d’opera, 44 di prosa e 93 concerti - sceglie proprio questi due titoli?
“Se il Don Giovanni è un capolavoro sul più sfrenato individualismo che, in questa nuova produzione, vedrà la collaborazione tra il regista Romeo Castellucci e, sul podio, Teodor Currentzis, Intolleranza 1960 è una profondissima riflessione sui diritti umani, sulla giustizia e sulla dignità a coinvolgere la collettività più vasta. Inoltre, con Intollerenza credo che il festival, dal ’93 ad oggi, abbia finito per presentare l’opera integrale di Nono: ho cominciato io, proprio nel ’93, inserendo nel cartellone il Prometeo. Da allora Salisburgo per lui è diventata un po’ una patria: davvero, non penso che ci sia al mondo un’iniziativa che per la sua musica abbia fatto così tanto”.
Cosa la affascina dell’opera di Luigi Nono?
“Ovviamente, la qualità della sua musica, ma anche le sue prese di posizione nei confronti della società, della politica, dell’economia. Sì, lo sento a me molto vicino. Ciò non significa che ne condivida in toto l’ideologia, che sposi ogni suo pensiero, ma mi colpisce che un grande compositore, un grande artista come lui, di sicuro uno dei più importanti del XX secolo, abbia avvertito la necessità di confrontarsi con certe tematiche e di affrontarle senza alcuna paura. Nono ha fornito una risposta sul perché scrivere musica, sulla necessità del doversi esprimere, sull’opportunità di un impegno civile”.
Soffermandosi sul programma del festival, si può affermare che il centenario dell’anno scorso, non avendo potuto celebrarsi a dovere, viene prorogato a quest’estate…
“Nel 2020 abbiamo fatto uno sforzo enorme dimostrando che, nonostante la pandemia, si poteva realizzare una ma
nifestazione importante come la nostra, pur con un programma modificato rispetto alle intenzioni originarie. Per esempio, c’è stata una Elektra di inaudita violenza, sia nella parte orchestrale sia in quella scenica, e, per contro, c’è stato un Così fan tutte di eleganza e leggerezza straordinarie, perfettamente in linea con il suo carattere mozartiano. Anche Elektra, come del resto Don Giovanni (che lo scorso anno non abbiamo potuto mettere in scena), è un’opera sul più sfrenato individualismo, mentre in Intolleranza, appunto, il protagonista è il popolo, la comunità nel suo complesso”.
Nel cartellone del 2020, in un primo tempo lei aveva voluto anche il Boris
Godunov…
“L’avevo pensato inizialmente per la direzione di Mariss Jansons, che è mancato però a fine 2019. Si inseriva nel percorso che dall’individualismo di Don Giovanni ed Elektra approda alla comunità: Musorgskij non ha voluto fare il ritratto di un sovrano forte, evidenziando invece la forza della gente. Ma quest’anno a metterlo in scena non ce la facciamo proprio né per le normative anti Covid né da un punto di vista economico. Al più presto, il Boris lo si potrà vedere nel 2024. È obbligatorio, in questi tempi, adottare un intelligente pragmatismo, trovare soluzioni particolarmente flessibili senza però addivenire a troppi compromessi”.
Quanto, in sostanza, la pandemia ha influito sulle sue scelte per il 2021?
“Abbiamo deciso di prolungare il centenario. Ho quindi richiamato gli artisti che sono stati invitati nel 2020 e che non hanno potuto esibirsi. Per esempio, faremo la Tosca con Anna Netrebko che era già in calendario lo scorso anno, come riprenderemo dall’estate precedente il ciclo delle ‘Ouverture Spirituelle’, avente per titolo “Pax”. Il Boris, però, merita un altro discorso: metterlo in scena è impossibile
Il festival più importante del mondo annuncia il programma del 2021. “Don Giovanni” e “Intolleranza”. Netrebko (in Tosca), Pollini e Muti che dirigerà per la prima volta la “Missa Solemnis”. “Dispiace che la politica non abbia trovato soluzioni per teatri e musei, se non la chiusura”, dice il direttore artistico Markus Hinterhäuser
perché, superato quello economico, il problema della disposizione delle masse rimarrebbe insormontabile”.
Tra gli appuntamenti di spicco, non mancheranno poi i concerti di Riccardo Muti, nel 50.mo anniversario del suo debutto a Salisburgo.
“Sono particolarmente felice di questa collaborazione con il Maestro Muti. Nel 2020 ci ha regalato una magnifica IX di Beethoven, ma quest’estate affronterà per la prima volta nella sua carriera la Missa Solemnis. Per noi è un graditissimo dono, uno dei momenti più preziosi e attesi dell’intero festival. Poi, Muti sarà impegnato anche in due concerti con la sua Chicago Symphony”.
Maurizio Pollini, invece, per il 50.mo anniversario del debutto deve attendere il 2023. Anche quest’anno, comunque, sarà in cartellone.
“Oltre che quest’estate (impegnato in pagine di Schumann e di Chopin), era in programma anche nel 2020, ma l’anno scorso è stato lui a declinare l’invito, per i tanti casi di Covid in Lombardia che gli hanno suggerito di non correre rischi”.
Cosa si sente di dire al pubblico degli appassionati? È possibile, al momento, fare qualche previsione sulla capienza del Grosses Festpielhaus e delle altre sale del festival?
“L’andamento delle vaccinazioni, il sopraggiungere dell’estate, gli effetti dei vari lockdown dovranno produrre validi risultati. Sono quindi relativamente ottimista, ma non posso fare previsioni dettagliate, a cominciare da quelle sulla capienza dei teatri. Ovvio, spero che il festival si possa realizzare nella sua interezza. Di sicuro, l’impegno e gli sforzi in favore della cultura e dell’arte non sono mai vani. Quanto abbiamo fatto nel 2020 mi rende orgoglioso, ma anche un po’ triste: su 80 mila spettatori non si è verificato un solo caso di coronavirus. Quindi, il festival si è svolto nella più totale sicurezza, con una meravigliosa solidarietà tra artisti e pubblico. Evidentemente, però, la politica non trova molte alternative per combattere la pandemia alla chiusura delle sale: ecco spiegata la mia tristezza”.
In un mondo che, nell’arco di un secolo, non può non essere profondamente cambiato, qual è il significato, oggi, del festival di Salisburgo?
“Nel complesso, non direi che ha un’importanza minore rispetto a ieri. Si propone innanzitutto di essere un festival dell’arte, un festival europeo, assolutamente contemporaneo, in grado di stimolare profonde riflessioni sul mondo attraverso capolavori, da Monteverdi ai nostri giorni, che permettono di analizzare la società, come se fossimo al microscopio. L’arte offre infatti la possibilità di affrontare le grandi domande dell’esistenza e così, a Salisburgo, non si assiste soltanto a un importante numero di spettacoli, ma a un vero e proprio racconto, nella più totale libertà della sua percezione, sulle possibili risposte a queste domande. Ciò non in maniera pedagogica, ma, appunto, attraverso opere e concerti in primis, che si possono applaudire grazie a risorse economiche ancora notevoli e al gradimento di un pubblico internazionale ancora rilevante”.
Nel parlare del festival, un confronto con l’epoca Karajan è sempre imprescindibile…
“Ho la più grande ammirazione per Karajan, ma il festival doveva in qualche maniera rinnovarsi, trovando nuove formule, nuove proposte, anche più ampie rispetto alle sue; non aveva altra scelta: dopo la sua scomparsa, non si poteva portarlo avanti, continuare nel suo spirito, nella sua visione, come se lui ci fosse ancora. Una figura come la sua non ci sarà mai più, è destinata a rimanere unica. Non dimentichiamo, comunque, che la sua grandezza si è innestata in decenni di evoluzione economica e di espansione del mercato discografico, che peraltro lo stesso Karajan ha molto contribuito a favorire. Oggi, ci troviamo di fronte ad un mondo cambiato, con tutti i pro e i contro che ne conseguono”. 턢