Verdi in un DUETTO
La dialettica tra Filippo e Posa, al Comunale modenese (ora intitolato a Pavarotti e Freni) con le voci di Pertusi e Salsi, chiarisce una volta per tutte cosa debba intendersi per “voce verdiana”
VERDI
DON CARLO
INTERPRETI A. Carè, A. Pirozzi, M. Pertusi, L. Salsi, J. Kutasi, R. Chikviladze, A. Gramigni
DIRETTORE Jordi Benacer
ORCHESTRA Arturo Toscanini
TEATRO Comunale, streaming
★★★★
Nella sera del 6 febbraio il modenese teatro Comunale era intitolato ancora al solo Luciano Pavarotti: ora, accanto al suo nome figura quello della collega e fraterna amica Mirella Freni, in gloria d’una modenesità più che sacrosanta. Ma quest’unica recita di Don Carlo in forma di concerto destinata al pubblico televisivo (streaming come al solito tecnicamente eccellente: una realtà, quella del portale gratuito Operastreaming che raccoglie i teatri emiliaromagnoli, da indicare senza esitazioni come esemplare, unica a poter reggere il confronto sia audio che video con le maggiori realtà digitali europee) era comunque dedicata alla memoria di Mirella Freni e Nicolai Ghiaurov. Viatico impegnativo senz’altro, data l’altezza cui s’attestano le due loro interpretazioni in quest’opera: ma che la realtà della serata ha dimostrato essere ampiamente meritata. Intanto, la Toscanini ha suonato molto bene e il coro Lirico di Modena s’è disimpegnato con onore superando entrambi, sul versante meramente esecutivo, il difficile compito imposto dal distanziamento: la direzione di
Benacer li ha opportunamente favoriti sollecitando un’agogica per lo più spedita, nell’ambito però d’una concertazione che se da una parte valorizza le molte raffinatezze strumentali, dall’altra procura di inserirle in guisa di significativi elementi strutturali entro un’architettura complessiva dove l’ineludibile maestosità
non contrasta ma al contrario sottolinea ulteriormente lo sbalzo psicologico dei personaggi; il cui canto accompagna e sostiene con grande sensibilità teatrale.
Nel cast, due elementi rendono questo Don Carlo di levatura a mio parere storica: Michele Pertusi e Luca Salsi. Voci di timbro molto bello, sappiamo. Linee vocali solide, morbide, omogenee e fluide perché la colonna di suono che le regge poggiata e si proietta con tutti i crismi della migliore scuola, sappiamo anche questo (ma che Pertusi, dopo anni di gloriosissima carriera nella quale non s’è mai avvertito il minimo scollamento, canti ancora così una parte simile, è faccenda che comincia a collocarlo nell’esiguo novero dei miracoli vocali, quelli dei Gigli, Bergonzi, Freni). Però tutto ciò è solo punto di partenza. Perché siamo davanti a esempio secondo me paradigmatico di cosa abbia a intendersi voce verdiana. Tormentone sempre tirato in ballo, questo, al pari dell’altro concernente la “parola scenica”: famosa definizione indicata da Verdi medesimo quale asse portante della propria drammaturgia musicale. Sono sempre stato del parere che le due definizioni abbiano a essere strettissimamente allacciate. Voce verdiana non è il vocione che fa tremare le mura della sala. E parola scenica non può esserci in assenza di quella tecnica di controllo e proiezione del fiato in mancanza della quale non c’è dinamica e quindi non ci sono colori, chiaroscuri, insomma fraseggio. Dunque voce verdiana è quella (quale ne sia il volume) capace di scolpire la parola scenica: tutt’altra cosa - più difficile ma anche ben più interessante teatralmente parlando - della pur commendevole buona dizione. Detto questo, ascoltiamo il duetto PosaFilippo come lo cantano Salsi e Pertusi. Pagina sull’importanza della quale Verdi era talmente convinto da lavorarci su a lungo producendo ben quattro versioni. Pagina nella quale il declamato su cui sostanzialmente è impostata ha da una parte un voltaggio melodico altissimo, e dall’altra la fluida duttilità della frase in prosa. Ma se consideriamo il novanta per cento delle esecuzioni consegnate al disco, è quella caratteristica, non questa, a essere posta in valore dagli esecutori: voci di necessità ampie e timbrate giacché l’orchestra che sta sotto non è un propriamente cameristica; ma voci che imperiosamente fanno di tutto per sottolinearlo quanto più possibile, accentando sì (nei casi migliori), ma badando a scolpire i termini di più suggestiva evidenza e per il resto mettere in vetrina quanto meglio illuminata sia possibile la propria pregiata mercan
zia vocale. Qui è tutt’altra cosa. “Restate!”: il punto esclamativo non è ornamento buttato lì, ma indicazione tesa a imprimere al verbo un che di seccamente imperioso; e Pertusi quell’esclamativo te lo fa sentire nitidissimamente. “L’audacia perdono… non sempre”: innumerevoli Filippo hanno scolpito quel “non sempre” con maestosa regalità, e ci siamo doverosamente impressionati; Pertusi v’imprime una sommessa minaccia che rende infinitamente meglio il carattere introverso, roccioso, insofferente ad ogni sia pur minimo sospetto d’indipendenza da parte d’un suo suddito. “Che vuoi dire?”: e Filippo comincia a sorprendersi, come se lo vedessimo guardare Posa con diverso ma accresciuto interesse. Da parte sua, questo Posa arriva quasi a minacciare, ma con toni felpati, ammonitori però non troppo: sentire cosa Salsi fa percepire in quel “Non abbia mai di voi l’Istoria a dir”, l’avverbio un sussurro insinuante, carico di ammonimento ma anche, sotto sotto, di minaccia in virtù del peso maggiore caricato sulla prima consonante; qualcosa di simile l’avevo sentito soltanto da Sesto Bruscantini a Roma nel ’68, e per come intendo io il teatro musicale, lode maggiore non riesco a immaginare. Poi, certo, le espansioni cantabili si aprono gloriosamente: “Sia benedetto Iddio” è splendido per la brunita pastosità timbrica; i fa e i fa diesis grandinano con quella tipica facilità che quanti sanno cantare fanno sembrare noncuranza. Ma resta di più nella memoria la scabrosissima frase della pace dei sepolcri, che novantanove volte su cento ascoltiamo come “la pace dei sepolcri”, quindi quasi necessariamente larga, col concreto – e difatti… - rischio dello spampanamento. Non è scritta così. “La pace è dei sepolcri”, sta scritto: e se tu fai sentire il verbo, differenziando così le due “e” pur entro lo stesso mi bemolle, la fonetica impone di raccogliere il suono, evitandosi così l’enfasi ma non l’ampiezza retorica, che incide molto ma molto di più. Cosette? Mica tanto: è di cosette così, che è fatta l’interpretazione. Se poi parliamo di Verdi… E come fa schioccare le consonanti, Pertusi, badando però a rendere la prescrizione cupo, nel “ti guarda dal Grande Inquisitor”; e nemmeno è a dire quanto sono differenti i tre “ti guarda” conclusivi. Altra gemma pertusiana il “e nulla ancora hai domandato al Re”, dove non viene calcato l’accento sul nulla come fanno quasi tutti, bensì sul domandato, a sottolineare la sorpresa di chi si sente sempre al centro di perorazioni. Quisquilie, potrebbero sembrare. Per me, sono quisquilie che conferiscono valore storico a questa pagina perché sono esse a dar conto della straordinaria novità di scrittura che ne fa esempio tra i massimi di cosa realmente sia (possa essere…) il teatro musicale verdiano. Sottolineo “teatro”. Poi, certo. La scena del carcere come la canta Salsi, col legato e la morbidezza in cui si discerne il passato mozartiano, e col fervore del suo accento, è tra le più belle che un Posa abbia fatto ascoltare negli ultimi quarant’anni; come lo è la perorazione a Elisabetta, il duetto con Carlo, gli interventi nel terzetto. La grande aria di Filippo, i suoi interventi nel quartetto, il taglio meno grandiosamente maestoso nella scena dell’autodafè, più incisivo e imperioso, da uomo d’azione: al di là dello splendido canto, Pertusi plasma un Filippo personalissimo e di straordinario fascino. Fa percepire grandi cose anche nell’altra pagina incredibilmente innovativa dell’opera, pendant perfetto del duetto con Posa, ovverosia il colloquio col Gande Inquisitore (principiato con l’idea bellissima di “In dubbio io son” in cui il rilievo conferito a “io” pare sottintendere un “ma come è possibile che io abbia un dubbio??” rivelando una patina di debolezza che ingigantisce anziché sminuire la grandiosità del personaggio; strepitoso anche quel “mezzo estrem” esalato con sgomento, quasi terrorizzato all’idea di tale eccesso): ma perché un colloquio sia interessante occorre essere in due, e Ramaz Chikviladze è il solito bassone slavo dalla linea di grana grossa e accento nullo che sa il cielo perché quest’opera si porta addosso come maledizione atavica. Ho avuto la fortuna, tre anni fa, d’ascoltare a Lione uno stupendo Don Carlos (ovvero l’edizione francese) nel quale Pertusi duettava - meglio, conversava - con Roberto Scandiuzzi: l’uno meritava ampiamente l’altro, e anche solo per questa pagina valeva la pena aver fatto il viaggio. Anna Pirozzi debutta Elisabetta, e un po’ si sente. Diverse incertezze, i soliti acuti di forza un po’ oltre la soglia del grido (il test che pochissime Elisabette anche assai titolate non superano è “Non pianger mia compagna”, dove o sai cantare davvero o incespichi, e quelle due infernali salite al Si bemolle diventano uno strazio), parecchie frasi ancora abbozzate in fatto d’accento: molti bei momenti, tuttavia, e comunque si avverte dappertutto l’impegno e la serietà con cui questa voce splendida per timbro e ampiezza sta raffinando la sua carriera; e la grande aria finale è veramente notevole. Pure Judit Kutasi sfoggia materiale privilegiato in fatto di colore, espansione, robustezza (un terzetto di raro fulgore; a fronte, si capisce, problemi nelle agilità del Velo): ma non è solo l’accento a latitare bensì proprio la dizione, che è parecchio burgunda e più che plasmare un personaggio si limita a pattinare sulla sua superficie vocale. Il protagonista, Andrea Carè, ha un fior di voce emessa anche piuttosto bene, in ispecie nel registro medio-acuto: si sforza di produrre dei piani riuscendoci spesso, così da curare lodevolmente un fraseggio che, seppure ancora incompleto, si fa comunque ascoltare. Il problema, certo, è costituito da Posa e da Filippo: accanto a due simili mostri in fatto di parola verdiana, il confronto si fa arduo per chiunque.