Recensioni dai teatri
Lo scioglimento dei ghiacci, nello spettacolo di Michieletto, accompagna il racconto di una saga familiare alla Ibsen. Direzione superba di Rattle, Herlitzius da annali
JANÁCEK
JENUFA
INTERPRETI C. Nylund, E. Herlitzius, L. Elgr, S. Skelton, H. Schwarz, V. Randem
DIRETTORE Simon Rattle
REGIA Damiano Michieletto
TEATRO Staatsoper unter den Linden
★★★★★
Fortunatamente, già da qualche tempo questo capolavoro è stato sottratto all’equivoco che lo voleva esponente slavo della corrente verista, con tutto il pernicioso ambaradan del folclore formato turistico e della Natura stile Disney (anziché intendere entrambe quale metafora sociale), ma anche dell’esagitazione sciamannona stile Grand-Guignol: laddove è esempio forse massimo di teatro musicale da camera, compagno ideale dei maggiori testi di Strindberg e di Ibsen. Jurij Ljubimov a Londra, Robert Carsen ad Anversa, Nikolaus Lehnhoff a Glyndebourne ma soprattutto il geniale elfo russo Dmitrij Cerniakov a Zurigo, l’hanno ampiamente dimostrato. Sulla medesima scia si pone Michieletto, con una regia di livello analogo a quest’ultimo: salvo il riuscirne complessivamente migliore grazie al decisivo valore aggiunto dato dalla direzione.
La scena dell’alter ego di Michieletto, Paolo Fantin, è un parallelepipedo chiuso da pannelli luminosi (luci strepitose del secondo alter ego del regista, Alessandro Carletti) che imprimono all’ambiente tonalità sempre cangianti ma tendenzialmente fredde, dal verde pallido al giallo all’azzurro. Oggettistica ridotta a cinque panche lignee più un’altra su cui poggiano candele crocifisso e reliquario, a stilizzare un altare. Su una panca è posto un vasetto di rosmarino, il pluricitato simbolo del felice amore coniugale. E basta. Sufficiente però a sollecitare molte suggestioni per così dire sottopelle. Un ambiente chiuso, oppresso, come bloccato, dalla luce gelida: quasi interno di quell’iceberg che vedremo poi. Una società - grosso modo anni Settanta, comunque vicina a noi, perché la storia riguarda tutti - raccolta attorno alla religione, con tutto quanto questo comporta in fatto di regole, divieti e senso di colpa immanente. Un’impostazione siffatta, solo apparentemente semplice, comporta un costante primo piano dei personaggi della vicenda: dei singoli soltanto, dato che le limitazioni-Covid
impongono un coro distribuito in platea e nei palchi; ma è una limitazione tradotta in vantaggio, dato che contribuisce non poco all’eliminazione d’ogni effetto naturalistico in favore d’una gestualità capace di farsi sensibilissimo sismografo psicodinamico che definisce le individuali psicologie accompagnandone il loro evolversi. Jenufa che si muove con calma, gesti larghi e morbidi. Laca, complice l’imponente struttura fisica, impacciato e tutto a scatti, con una violenza sotterranea che si capisce benissimo essere sempre pronta a esplodere. Steva, aitante e sorridente ma preda di raptus fulminei che ne rivelano l’interna debolezza, durante uno dei quali frantuma rabbiosamente con un punteruolo un blocco di ghiaccio, metafora vivida dell’inane tentativo di evasione, di sottrarsi alla gelida cappa che lo imprigiona. La vecchia Burya, che su di sé annoda in guisa di crocevia le traiettorie drammaturgiche di quella Famiglia che in definitiva è la vera protagonista di tutta la vicenda, si muove rigida non solo per l’età ma per la corazza di pregiudizi e convenzioni che l’imprigiona. Kostelnicka, infine: che l’arte suprema di Evelyn Herlitzius rende di carisma di tanto più debordante in quanto i gesti sono minimali, la figura tutta rigida con le spalle rattrappite entro un nero tailleur con croce sul risvolto della giacca, e gli occhi immensi che calamitano l’attenzione, resi dalla ripresa video portentoso centro focale d’ogni immagine, anche quando ne sta ai bordi.
Così, al second’atto, sopra la culla del bambino avvolto nella coperta di lana rossa che Jenufa ha lavorato coi ferri nel prim’atto, allorché in Kostelnicka, dopo i suoi colloqui con Steva e con Laca, si fa strada la consapevolezza che la posizione sociale di Jenufa è destinata a franare dal suo essere ragazza madre, però potrebbe restare integra ove il bambino di Steva non ci fosse perché allora il suo fratellastro Laca acconsentirebbe a sposarla: ecco che “vediamo” il mostruoso pensiero omicida emergere dal fondo represso della mente della sagrestana sotto forma d’un enorme iceberg con la punta in basso, che lento, lentissimo scende dall’alto occupando pian piano l’intera scena. Metafora potente dell’inconscio freudiano, indicato dalla sua sommersa parte enorme che emergendo giganteggia rispetto a quella cosciente. Inconscio che non è solo individuale: ma è tutto il coacervo di regole perbeniste - scritte ma soprattutto non scritte, e queste sono ben più ferree di quelle - poste a scandire la vita quotidiana della società. Man mano che tale mostruosa punta s’avvicina al pavimento, Jenufa prende coscienza della morte del suo bambino avvolgendo durante quella pagina sublime che è l’invocazione alla Vergine - un filo rosso raccolto dietro uno dei pannelli luminosi, prima di sedersi a tagliarsi la chioma bionda in un momento d’insostenibile lacerazione. Stessa cosa all’acme emotivo dell’opera, la scoperta del cadavere del bambino. All’inizio del terz’atto Kostelnicka trascina via il tappeto che stava sotto alla culla, rivelando uno slabbrato buco nero su cui insiste la punta dell’iceberg: l’inconscio ormai emerso rende impossibile ogni infingimento. E da quel buco, viene sollevata la coperta di lana rossa tutta gocciolante, e consegnata a Jenufa. Il nucleo attorno al quale ruota tutta la poetica di Janacek, ovvero l’umanità naturale e insopprimibile dell’essere umano, Michieletto lo comunica con un’intensità che trascende il dato materiale dell’omicidio rendendolo il lato oscuro capace d’uccidere ogni autenticità sentimentale: dall’immenso iceberg-inconscio colano rivoli d’acqua che lo sciolgono. L’acqua quale lavacro rigeneratore, ma non solo purificatore come nello spettacolo di Carsen concluso anch’esso sotto una pioggia. Perché Kostelnicka si pone entro quel buco, e quella cascata si riversa su di lei per l’intera durata della scena finale. Lavacro, sì, ma anche dura espiazione: quasi un contrappasso dantesco. E come anticipavo, l’impianto narrativo riceve un volano formidabile dalla direzione. Rattle definisce con eccezionale nitidezza ogni snodo emozionale, attraverso un sapientissimo mix di dolcezza (quel Notturno del second’atto!), di ghiacciato viluppo di allucinazione nevrotica (la conclusione del second’atto!), di rapinosa estasi dove sensualità e malinconia elevano un vero e proprio inno alla femminilità, tratto questo janacekiano quant’altri mai. Il tutto, con una tensione costante in fenomenale simbiosi con la gestualità tutta “in sottrazione” voluta dalla regia: teatro musicale della più bell’acqua. Ottimo il cast. Con menzione specialissima per la Kostelnicka della Herlitzius.
A impiegare l’idiota bilancino del vociologo, qualche acuto sarà anche tirato ma la linea è comunque solida, in grado di assicurare quelle continue variazioni dinamiche alla base d’un fraseggio di quelli che marchiano a fuoco per sempre un personaggio. Per giunta, i primi piani del video non solo la Herlitzius li regge superbamente, ma li satura con un gioco mimico mai - ma proprio mai mai “divesco” al modo di certe poveracce Nonne Liriche, in ogni momento di un’intensità scabra, dura ma col costante sottofondo di sofferenza autentica, umanissima: capolavoro supremo. Magnifica pure Camilla Nylund, al debutto nel ruolo: bel timbro luminoso, linea morbida e fraseggio improntato a un caldo lirismo che nel grande monologo del second’atto attinge a grandissima suggestione. Ladislav Elgr è uno Steva di forte incisività, nel canto e nel gesto componendo un ritratto sfaccettatissimo di vanesio arrogante e piacione, con screziature quasi sgomente d’indifesa impotenza. La gloriosissima Hanna Schwarz, l’indimenticabile Fricka di Chéreau, torna dopo lo spettacolo di Cherniakov a impersonare la vecchia Burya, e ne fa di nuovo un personaggio strepitoso. Magnifico tutto il cast di contorno, e ottimo il coro.
Lo spettacolo, diffuso in diretta sul portale della berlinese Staatsoper e filmato in modo superbo dalla regista Beatrix Conrad, sarà presto visibile sulla francese Mezzo, captata in Italia dai ricevitori TvSat: e i sottotitoli francesi lo renderanno ancor più godibile.