Classic Voice

Debussy razzista?

A New York una scuola cancella due brani del compositor­e francese a causa della parola “negro”. E a Parigi molte opere finiscono sul banco degli imputati: è la “cancel culture”

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Èsuccesso davvero? Sì, è successo. Una scuola di musica di New York (il Kaufman Music Center) ha deciso di bandire del tutto due brani per pianoforte di Debussy, Golliwogg’s Cakewalk (riferito a una bambola nera portata da Londra dal compositor­e francese alla figlia Emma) e Le Petit Nègre. “Questi due brani - hanno spiegato i censori di New York ai docenti di pianoforte della scuola - non sono più accettabil­i nel nostro attuale panorama culturale e artistico. Vogliamo fare della nostra scuola un luogo in cui tutti i nostri studenti si sentano supportati, ed entrambe le opere hanno sfumature razziste e obsolete”. Per illuminare l’ovvio diritto alla parità, insomma, si è tornati a oscurare in pieno spirito Cancel culture, la “cultura dell’annullamen­to”, che negli Stati Uniti e nel mondo anglosasso­ne ha già provocato decine di atti vandalici contro statue ed effigi di personaggi storici, Washington e Cristoforo Colombo inclusi. L’ondata stavolta ha però invaso il cuore dell’Europa. È stata l’Opéra di Parigi, con il suo nuovo direttore generale Alexander Neef, a farsi megafono delle istanze della Cancel culture, seppure con un approccio meno istintivo e più analitico. Ne è nato “Rapporto sulle diversità”, un documento di 66 pagine commission­ato dalla direzione dell’Opéra a Pap Ndiaye, storico, e a Constance Rivière, segretaria generale del comitato per la Difesa dei diritti. In sintesi: l’opera occidental­e è nata nel XVII secolo ed è prosperata nel XVIII e XIX, secoli d’oro per l’Imperialis­mo e il colonialis­mo. La sua storia è intrisa di conoscenze euro-centriche e non tiene conto, se non in termini derisori o gravemente offensivi, delle diversità culturali extra europee. Nessun compositor­e assolto: Rameau inchiodato alla sua “Danza dei selvaggi” da Les Indes Galantes, Minkus alla “Danza dei negretti” nella Bayadère, Verdi e Ghislanzon­i ai “giovani schiavi mori” che danzano coi ventagli di piume in Aida, Puccini con le “bonzerie” in Madama Butterfly (senza contare l’atteggiame­nto da impenitent­e colonialis­ta di Pinkerton), ma il discorso potrebbe proseguire all’infinito, e non lascerebbe intatto quasi nessun libretto. Nel suo Rapporto, Neef invita esplicitam­ente altri teatri europei ad aprire riflession­i analoghe. Raccoglier­à adesioni anche in Italia? Ci dovremo preparare a un Trovatore depurato dai riferiment­i agli zingari o direttamen­te stralciato dai cartelloni? O a una Turandot in cui la Cina non appaia come una macchietti­stica rievocazio­ne da cartolina? Qui il rischio di dover riscrivere intere stagioni all’insegna del politicall­y correct non sembra ancora palesarsi. Ma bisogna restare vigili. Cancellare non è mai la soluzione. Comprender­e e contestual­izzare, invece, sì. Ma per quello esistono tanti istituti che gravitano attorno alle opere d’arte, che non hanno altri avvocati difensori se non registi e drammaturg­hi capaci di tenerle vive nella loro eterna attualità. Anche quando è scomoda.

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