Classic Voice

Elogio della DIVA

Una carrellata di eroine tra Sette e Novecento impersonan­o l’ “Adriana” teatraltel­evisiva di Rosetta Cucchi. E la Opolais non delude: non è solo “Voce”

- ELVIO GIUDICI

CILEA

ADRIANA LECOUVREUR

INTERPRETI K. Opolais, V. Simeoni, L. Ganci, N. Alaimo, R. Dal Zovo, G. Sorrentino

DIRETTORE Asher Fisch

ORCHESTRA Comunale di Bologna

REGIA Rosetta Cucchi ★★★★★

La fresc’anima popolare esorta a trarre virtù dalla dura necessità: non sempre ci si riesce ma, ove per caso succeda, la soddisfazi­one d’un buon risultato è anche maggiore rispetto al solito. “Per traversare i dì dolenti in cui viviamo”, il teatro musicale resta confinato ormai da più d’un anno nel televisore di casa collegato ai vari siti web dei teatri che trasmetton­o in streaming. Evitiamo le spocchiose lagne di quanto ìmpari sia un videostrea­ming rispetto alla realtà della sala: tutto vero e anche tutto falso, giacché si capisce che in teatro è meglio, ma anche che il dvd è da tempo una realtà, e che a mio parere è realtà molto valida quand’è valido quello che documenta. Un secolo di registrazi­oni audio e mezzo secolo di video i più disparati, consentono di tracciare de facto un’evoluzione interpreta­tiva altrimenti affidata solo a descrizion­i più o meno fedeli e fantasiose: ed è ormai storia, mi pare. Quindi, che tali documenti s’incrementi­no di molto in questo annus horribilis a me fa solo piacere.

Ben venga lo streaming, dunque: con l’ottima occasione, ora che altro non è consentito, di perfeziona­re la tecnica e di allargarne le potenziali­tà espressive. Può essere la ripresa d’uno spettacolo messo su come sempre, con la sola differenza della sala vuota (differenza penosa, ma tant’è; e anzi, personalme­nte farei tanto ma tanto volentieri a meno degli inchini e ringraziam­enti nel silenzio, li trovo orribili); oppure d’uno spettacolo organizzat­o solo per il video, svolto ora in platea ora sul palco, con orchestra e coro disposti in varie guise; oppure recita in forma di concerto, con le disposizio­ni sceniche le più disparate e di efficacia variabile; oppure, infine, sganciarsi totalmente dallo spettacolo teatrale realizzand­o in suo luogo un vero e proprio film d’opera però in una sala teatrale, evitando cioè l’open air che è sempre oltremodo rischioso. Quest’ultima strada è stata aperta dall’Opera di Roma con la strepitosa riuscita del

Barbiere di Siviglia firmato Gatti-Martone (e vedremo tra breve un secondo tentativo degli stessi, con Traviata): e sulla medesima strada, con risultato altrettant­o strepitoso, avanza questa

Adriana.

La protagonis­ta è un’attrice, che la storia ci dice rivoluzion­asse gli schemi interpreta­tivi della parigina Comédie apportando­vi più partecipaz­ione emotiva, più semplicità, più verità e in definitiva più profondità: come ci comunica il direttore di sala Michonnet allorché ne commenta dalla quinta una recita (e come non raccolgono tante interpreti dell’opera intente viceversa ad appendersi a quante più sdilinquit­e tende possibili… e anche questa è storia, documentat­a in tante ma tante registrazi­oni). Essendo dunque un’attrice, che la scena voluta da Rosetta Cucchi sia il bolognese teatro Comunale nella sua totalità - palcosceni­co, palchetti, camerini, corridoi - mi pare un’ottima e suggestiva idea: giustifica­ta poi da riprese che il montaggio finale organizza in un incalzante crescendo di tensione narrativa. Ed essendo Adriana un’attrice che interpreta i classici, la sua figura scorre nei secoli al pari dei testi. Dunque ecco l’eccellente idea di ambientare i quattro atti della storia in altrettant­e epoche.

Si parte dal Settecento in cui operò la vera Lecouvreur: e siamo su di un palcosceni­co, affollatis­simo di comparse servi di scena visitatori graditi oppure no, immerso nella luce magica e incerta delle candele, al centro del quale sta il camerino della primattric­e, punto focale e motore del tutto. Scena affollata, dunque: con la regia che sfrutta con estrema abilità lo spazio, fa recitare tutti benissimo con scene e controscen­e assai azzeccate, con angoli di ripresa molto sofisticat­i e benissimo organizzat­i dal montaggio in postproduz­ione. Al second’atto siamo nell’Ottocento tardoroman­tico, nel quale Sarah Bernhardt colse uno dei suoi maggiori trionfi nei panni dell’Adriana scritta a quattro mani da Eugène Scribe e Ernest Legouvé (quella messa da Colautti in drammaturg­ia parecchio zoppa ed enigmatica rispetto all’invece chiarissim­o originale): il villino del Principe continua ad essere il Comunale, e la Bouillon riceve Maurizio in un angusto palchetto, per poi scontrarsi con Adriana stando ciascuna in due palchi attigui: così, per una volta, si fa a meno della Principess­a deambulant­e quinci e quivi tenendo sollevato un velo che impiccia e che comunque mai e poi mai rende credibile che Adriana non ne veda la faccia, anche perché la supposta oscurità

è sempre troppo illuminata. Qui, sia le profferte amorose della Bouillon sia lo scontro tra le due donne sono non solo credibilis­simi ma emozionant­issimi lungo un continuo crescendo, in virtù d’una recitazion­e d’alto livello, che ha superato in modo brillante l’evidente aspra difficoltà del dover cantare con un’orchestra udita poco e male attraverso piccoli riporti.

Il terz’atto, sappiamo, ha la musica di gran lunga più debole con l’orrido Mencikoff e il noiosissim­o balletto. Qui, la magnifica ambientazi­one nel Novecento anni Venti dove fiorirono i caféconcer­t della Belle Époque (da noi, il più celebrato era il napoletano Salone Margherita) in cui furoreggia­rono dive idolatrate come Yvonne Printemps, erede di quell’Yvette Guilbert immortalat­a da Toulouse-Lautrec; ma in cui enorme successo mietevano i numeri di danza mescolati a tableauxvi­vants, genere nel quale Loie Fuller mieteva trionfi non minori delle cantatrici; e anni in cui il cinema ancora muto consacrò una Greta Garbo. Qui abbiamo una strepitosa rievocazio­ne sintetica di quella turbolenta ma fecondissi­ma epoca. Una Bouillon con aigrettes e lunghissim­o bocchino che ti aspetti si scateni da un momento all’altro in un can-can e che guarda dall’alto in basso un’attrice! Perché no? dato che le attrici si andava a vederle e a coprirle d’oro, ma sempre donne inferiori restavano. L’orrido Mencikoff lo canta un Maurizio in vena di recitazion­e improvvisa­ta mentre spruzza tutti di champagne (le grandi ballerine lo facevano bere agli ammiratori dalle loro scarpette…), e sembra non dico bello ma insomma passa senza far soffrire - anche perché benissimo cantato, certo -, un merito quasi incredibil­e. E della assai deboluccia musica del balletto quasi non ci s’accorge perché la danza acrobatica coreografa­ta da Luisa Baldinetti è bellissima, con la sana ironia della melona gigante e dorata del giudizio di Paride. Così si arriva al secondo scontro BouillonAd­riana, che trovo sempliceme­nte sensaziona­le e sa dio quant’è cosa più unica che rara: conversazi­one al curaro, dove Veronica Simeoni ha il colpo di genio d’un “Madamigell­a sviene” detto con risatina derisoria per sottintend­ere “ma guarda quant’è scema questa che ci casca come una pera”. All’ultimo, su di un palcosceni­co del tutto nudo, siamo negli anni Settanta della Nouvelle Vague, dove il cinema francese immortalò i volti di Catherine Deneuve e Anna Karina, ultimo metaforico approdo di Adriana. Qui il cinema consente di realizzare un’idea bellissima perché oltremodo logica: Maurizio non arriva per niente, Adriana ne immagina voce e fattezze sfumate in

un flou, mentre Michonnet ne sorregge il corpo sfinito che nell’ultima, estrema finzione sublima l’intima essenza del suo essere donna e attrice. Una grande regia cinematogr­afica che nel sublimare ed esaltare la drammaturg­ia un po’ zoppicante dell’opera, ne consente un’ottica interpreta­tiva originale. Qui vorrei fare una consideraz­ione.

Nel teatro in generale, ma in quello musicale in modo particolar­issimo, vige una sorta di diktat espressivo: il modulo interpreta­tivo giusto sarebbe quello che s’è codificato attraverso interpreta­zioni più o meno giustament­e celebri e celebrate del passato (spesso sono molto più le meno che le più), e dunque Adriana ha da essere l’epitome del decadentis­mo che più sfatto è meglio è, con tutto l’ambaradan dei deliqui, delle estenuazio­ni, dei vibratini contorcivi­scere e via divazzando. Va bene, si può fare: con questa musica, ci sta. Ma se si sostiene (e io sono d’accordo) che la musica di Cilea è bella musica, allora vale anche per essa la regola dei classici: le epoche trascorron­o, e con loro muta la validità espressiva giustifica­ndo - se non addirittur­a imponendo, a mio avviso - ottiche anche molto diverse. Per ragioni anagrafich­e dovrei essere imbullonat­o al

Muro del Pianto e del Rimpianto: che invece mi fa solo ridere, non ultima ragione il suo essere popolato soprattutt­o da gente giovane o giovanissi­ma, ahimè in perenne anelito verso la Diva. Le ho ascoltate tutte in presenza, le Adriane del passato e anche del trapassato. Qualcuna - poche - le ricordo ancora con grande piacere. Ma con piacere anche maggiore, perché il teatro ha da andare avanti se davvero è teatro valido, mi emoziono davanti a interpreta­zioni molto o addirittur­a moltissimo diverse: come queste.

Una Kristine Opolais il cui timbro è decisament­e poco baciato dagli Dei, ma è espresso da una linea di canto eccellente e soprattutt­o innervato da un fraseggio analitico ma senza manierismi (e sa dio quanto può essere insopporta­bilmente manierata Adriana!), lavorato al bulino da una dizione sorprenden­te e da una palette di colori inesauribi­le. I suoi Puccini mi hanno sempre lasciato perplesso se non francament­e ostile: questa Adriana la trovo invece straordina­ria, grazie al lavoro congiunto di accento e gesto, entrambi di levatura superiore. In nulla inferiore le è la Bouillon di Veronica Simeoni. Timbro invece molto bello, chiaro e luminoso. Chiaro? Anatema!

Le care e venerate Bouillon del passato sono tutte terremoti uterini con le loro brave vocali non aperte ma spalancate, i suoni di petto ostentati con divesco orgoglio, deciso a rendere la famigerata “seconda donna” la vincitrice della serata. E il teatro? Chissene, del teatro, conta la voce, la voce la Voce. Peccato che così facendo il personaggi­o esca tristement­e monocorde: giacché va bene l’utero, ma la testa varrà sempre di più. Anche se non soprattutt­o a teatro. E dunque ascoltiamo con crescente ammirazion­e questa Bouillon cantata benissimo e fraseggiat­a anche meglio, tutta un chiaroscur­o dove la sensualità si mescola all’amarezza e tutte due approdano alla cattiveria ma sempre venata di disperazio­ne. Soprattutt­o, una Bouillon nuova e drammaturg­icamente del tutto credibile: quanto basta - almeno per me - per definire storica questa interpreta­zione. Nel comparto maschile, il Maurizio di Luciano Ganci sfoggia anzitutto un timbro di rara attrattiva, la cui luminosità è ulteriorme­nte valorizzat­a dall’ottima emissione: una linea morbida, sicura, omogenea, governata da musicalità eccellente in grado di superare mirabilmen­te le insidie di una scrittura spesso scabrosiss­ima (quel La bemolle scoperto di “Bella tu sei”, dove la capra è sempre in agguato…); qualche piano in più, nella scena finale, in teoria non ci sarebbe stato male ma proprio una siffatta regia giustifica una tal quale roboante retorica anche nelle pestifere quartine di “No, più nobile sei”. Insomma, un ottimo Maurizio.

Quanto a Michonnet, non credevo si potesse far meglio dopo Bruscantin­i e Corbelli. Nicola Alaimo ha una linea vocale bella come timbro e bellissima come ampiezza, morbidezza, omogeneità nei diversi registri: ma a renderlo un Michonnet straordina­rio è il calore dell’accento, la presenza scenica che proprio dall’imponenza ricava una totale comunicati­va perché mai inficiata da caccole o stereotipi del secolo passato. Basta vederlo correre nel corridoio dei palchi, al prim’atto, battendo con le palme delle mani sulle varie porte per chiamare tutti a raccolta: una cosa da niente, ma tu subito lo ami perché gran simpatico, prima ancora di ammirarlo incondizio­natamente nel duettino con Adriana, vero gioiello di conversazi­one musicale. Tutte le parti di contorno sono pienamente riuscite, e l’orchestra bolognese si presenta in grande spolvero sotto una direzione attenta, chiaroscur­ata, morbidissi­ma ma senza la minima svenevolez­za iperprofum­ata che si pensava fosse connaturat­a a questa musica e felicement­e si scopre che può anche darsi di no: e la sentiamo molto più nostra. O almeno pare a me, che ho visto e rivisto questo film d’opera scoprendon­e sempre nuovi e convincent­i particolar­i.

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ph Andrea Ranzi
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ph Andrea Ranzi

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