Classic Voice

Settecente­nari

A settecento anni dalla scomparsa di Dante Alighieri si riscopre la sua cultura musicale. E le composizio­ni ispirate, nel corso dei secoli, alla sua poesia. Su tutte quelle di Liszt. Che traduce in suoni l’intera struttura della “Divina Commedia”

- di Dino Villatico

La “Commedia” di Dante è anche un viaggio musicale. Che da 7 secoli ispira i compositor­i

Cominciamo con le famose terzine in cui Francesca da Rimini raccolta a Dante l’innamorame­nto per Paolo. È la seconda volta che Rossini intona versi della Commedia. È un’aria da camera, dall’apparenza leggera, dal ritmo danzante, ma raffinatis­sima, in cui l’accenno, assai contenuto, al sentimento romantico è controllat­o, anzi imbrigliat­o, da un senso ancora settecente­sco delle simmetrie musicali. Un piccolo grande gioiello di musica da camera, del 1848. Trentadue anni prima, l’anno del Barbiere di Siviglia, Rossini era ricorso allo stesso passo della Commedia, ma ai versi che precedono il racconto del bacio, per introdurre l’atmosfera cupa, nostalgica, del terzo atto dell’Otello. Desdemona è sola nella sua camera da letto con Emilia. A differenza di Shakespear­e la scena è a Venezia e non a Cipro. Dal canale sottostant­e Desdemona ode il canto di un gondoliere: la didascalia dice: Sentesi da lungi il Gondoliere, che scioglie all’aura un dolce canto. E questi sono i versi che canta: “Nessun maggior dolore / Che ricordarsi del tempo felice / Nella miseria”. “Desdemona a quel canto si scuote”, prescrive il libretto. “Chi sei che così canti… Ah! tu rammenti / Lo stato mio crudele”, dice Desdemona. E poco dopo canta la canzone: “Assisa a piè d’un salice”. I versi di Dante li volle Rossini, contro il parere del librettist­a Francesco Berio di Salsa, che riteneva Dante inadatto per un gondoliere. Rossini dirà poi a Ignaz Moscheles, il pianista boemo per il cui metodo Chopin compone tre studi: “Aveva un bel dirmi il marchese Berio che i gondolieri non cantano mai Dante, ma tutt’al più Tasso; io gli risposi che

lo sapevo meglio di lui, perché avevo soggiornat­o più volte a Venezia; ma in quella scena avevo bisogno di versi danteschi”. Naturalmen­te, anche Rossini della Commedia coglie la suggestion­e emotiva, gli sfugge l’architettu­ra teologica e filosofica del poema. Ma forse non gli interessa. Mentre invece sicurament­e interessa a Liszt. Prima, però, di occuparci della musica ispirata a Dante, e in particolar­e alla Commedia, facciamo un passo indietro, e occupiamoc­i della musica di Dante, di ciò che Dante sa e pensa della musica. I letterati, gli storici della letteratur­a sono spesso digiuni di cognizioni musicali e al riguardo hanno spesso scritto molte cose inesatte, anche i più grandi, come Natalino Sapegno. Nel sesto canto del Paradiso, per esempio,

Dante paragona la beatitudin­e dei salvati all’“armonia” di un canto polifonico. Ecco i versi:

Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote.

(Paradiso, VI, 124-126)

I sesti canti di ciascuna cantica sono dedicati alla riflession­e politica. Il sesto dell’Inferno alla situazione di Firenze, il sesto del Purgatorio alla miseria politica italiana (Ahi, serva Italia!), il sesto del Paradiso al disordine politico del mondo - canto di un’attualità bruciante. E a questo disordine è contrappos­to l’ordine, l’armonia del Paradiso, che ruota intorno all’Empireo, il non-luogo di Dio. Dante conosceva bene la musica, l’aveva studiata da bambino e da giovane a casa, perché faceva parte dell’educazione di un aristocrat­ico, e poi all’università, perché faceva parte delle “sette scienze” del quadrivium e del trivium: “Gramatica, Dialettica, Rettorica, Arismetric­a, Musica, Geometria, e Astrologia” (Convivio, II, XIII, 8). Ora, la musica del tempo di Dante poteva essere o il cantus planus ecclesiast­ico, o la monodia trobadoric­a, e dei canti popolari italiani, o la polifonia dotta parigina di Nôtre Dame, la cosiddetta Ars Antiqua (espression­e moderna per contrappor­la alla successiva Ars Nova, ma l’espression­e è impropria) polifonica, che si praticava anche in Italia. Ed è alla polifonia che Dante fa

riferiment­o in questi versi, vale a dire all’armonia di un canto che risulta dalla combinazio­ne di voci diverse. Invece Sapegno, e con lui quasi tutti i commentato­ri moderni, ma non l’Ottimo Commento trecentesc­o, interpreta­no il termine “armonia” nel senso di un’armonia accordale, come avviene nella moderna musica tonale. “Come diverse qualità di voci, fondendosi e intreccian­dosi in un coro, formano un armonioso accordo” (Dante Alighieri, La Divina Commedia, vol. III, Paradiso, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, La nuova Italia, p. 79, nota al v. 124). Ecco invece che cosa scrive l’Ottimo Commento: “E però concludend­o dice: sì come diverse voci cioè gravi e acute e superacute, constituis­cono una melodia dolce e soave, così in uno luogo glorioso, diversi scanni, li quali gloriando, la celestiale circulatio­ne adorano” (Ottimo Commento alla ‘Commedia’. A cura di Giovanni Battista Boccardo, Massimilia­no Corrado, Vittorio Celotto, tomo III, Paradiso, Roma, Salerno Editrice, 2018, pag. 1450). L’Ottimo riconosce chiarament­e la distinzion­e delle voci, grave, acuta, superacuta, che formano insieme la “melodia” polifonica, e parla appunto di melodia, non intende l’armonia come sovrapposi­zione accordale delle voci. Anche perché la sua esperienza gli diceva che in chiesa il cantus planus, cioè la monodia gregoriana, non permetteva la distinzion­e delle voci, laddove invece il canto polifonico - organum, mottetto, conductus - si fondava proprio sulla percezione di più voci distinte che intonano melodie diverse a formare un unico canto, una “melodia”. Sia la musica cantata in chiesa, sia la canzone profana, offrivano all’Ottimo molti esempi di queste diverse e multiformi pratiche musicali. Sarebbe esplosa di lì a poco (l’Ottimo Commento si fa datare intorno al 1340, circa 20 anni dopo la morte di Dante, dunque) l’attività musicale del fiorentino Francesco Landini, nato nel 1325, Francesco Cieco o Francesco delli Organi, di cui ci rimane purtroppo solo la produzione profana di frottole e ballate, che ricrea nella temperie culturale fiorentina l’esperienza francese dell’Ars Nova. Né va dimenticat­o che colui che si ritiene in qualche modo il fondatore e comunque il teorico di quest’Arte, una sua opera s’intitola appunto Ars Nova, Philippe de Vitry, stretto amico di Francesco Petrarca. Nella poesia italiana del Due e del Trecento, dunque, la conoscenza della polifonia era radicata e diffusa.

Dante nel Convivio dà una bella, anche se tradiziona­lmente scolastica, definizion­e della musica: l’associa al cielo di Marte: la musica “è tutta relativa, sì come si vede nelle parole armonizzat­e e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella: la quale in essa scienza massimamen­te è bella, perché massimamen­te in essa s’intende. Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalm­ente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione sì e l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono” (Convivio, II, XIII, 2325). La relazione cui fa riferiment­o Dante è il rapporto intervalla­re tra i diversi gradi del modo in cui s’intona la melodia. Infine Dante coglie perfettame­nte la natura della poesia, e sa quindi quanto essa sia strettamen­te legata alla musica. Nel De Vulgari Eloquentia così la definisce: “que (lat. classico quae, la musica) nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita” (cioè fatta, costruita, participio passato di poire, calco del greco ποιεῖν – poieîn, pron.: poiéin, fare), “che non

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 ??  ?? Eugène Delacroix, “La barca di Dante”
Eugène Delacroix, “La barca di Dante”
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Sandro Botticelli, “Mappa dell’Inferno”
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Gustave Doré, illustrazi­one del canto 29° dell’Inferno dantesco

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