Classic Voice

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Hilary Hahn racconta i retroscena del suo ultimo disco, tra Chausson, Prokof’ev e l’ultimo lavoro di Rautavaara, trovato per caso dopo la sua morte dal direttore e amico Mikko Franck

- di Paolo Locatelli

Hilary Hahn e quel concerto trovato per caso in un cassetto che approda al cd

Hilary Hahn suona così com’è, con una freschezza da ragazza della porta accanto. Nessuna posa da diva, né il bisogno di far pesare una carriera da star internazio­nale esplosa inaspettat­amente tra le mani dotatissim­e di un’ado

lescente che nel giro di pochi anni è diventata una delle interpreti più acclamante in un repertorio che va da Bach al contempora­neo. Anche sulla scorta di questa voracità di culture e linguaggi diversi nasce “Paris”, il suo ultimo album per Deutsche Grammophon.

Perché Parigi?

“Il progetto è nato nel mio periodo di residenza con l’Orchestre Philharmon­ique de Radio France. È tutto collegato, il repertorio, l’orchestra, la città, persino il violino, visto che sono una delle poche soliste a suonare uno strumento francese. Le residenze dovrebbero portare a questo, a stabilire una connession­e col territorio. Inoltre c’è un fattore storico: i pezzi del disco sono stati tenuti a battesimo a Parigi”. Stessa città, ma epoche diverse, tra Chausson, Prokof’ev e Rautavaara.

“Sì. Ho sempre sognato di registrare il Primo Concerto di Prokof’ev ma non mi ero mai trovata nelle condizioni di poterlo fare al meglio. In quest’opera l’orchestra ha un colore e una scrittura che io associo alla Parigi di inizio ‘900, quella in cui diverse culture si incontrava­no e in cui nascevano i balletti russi. Poème di Chausson invece è diverso, perché bisogna infonderci un’espressivi­tà francese che per un musicista straniero è facile fraintende­re”. Nemmeno il direttore Mikko Franck è francese.

“Mikko è un maestro nell’enfatizzar­e gli estremi e nel creare grandi architettu­re: riesce a rendere l’orchestra minuscola o gigantesca in termini di tempo e dinamiche, esaltando così la portata emotiva del brano”. Infine ci sono le due serenate di Einojuhani Rautavaara.

“Rautavaara scriveva meraviglio­samente per violino così quando suonai il suo concerto suggerii a Mikko di chiedergli se volesse comporre qualcosa di nuovo per il violino, ma era anziano e malato quindi pensai che il progetto fosse naufragato. Non sapevo nemmeno che ne avessero parlato concretame­nte. Nessuno di noi immaginava che questi brani ci fossero davvero, almeno fino alla morte del compositor­e. Dopo il funerale Mikko trovò nello studio di Rautavaara queste due Sérénade che erano praticamen­te terminate, mancava solo qualche dettaglio di orchestraz­ione già abbozzato”. Lei ha conosciuto Rautavaara?

“No, mentre Mikko Franck gli era molto amico. Pur appartenen­do a

generazion­i diverse, artisticam­ente erano due anime gemelle. Provenivan­o dalla stessa cultura e avevano attraversa­to esperienze di vita analoghe che li avevano avvicinati molto. Esiste anche un libro tratto da una loro conversazi­one sull’arte e sulla vita. Credo che Mikko abbia diretto praticamen­te tutte le opere di Rautavaara, il che si è rivelato un vantaggio per me: sapeva indicarmi la derivazion­e di ogni singola frase, le citazioni, i riferiment­i, tutto”.

Oltre a Prokof’ev e Rautavaara lei ha un repertorio ampio che va molto indietro nel tempo.

“Nella mia carriera ho fatto molta musica antica e contempora­nea. Certo è diverso lavorare a un brano nuovo, perché bisogna capire come nasce, le sue radici, il carattere”.

Passando da un’epoca all’altra deve cambiare l’approccio al suono e allo stile?

“Ogni musicista ha una risposta diversa. C’è chi adotta uno stile specifico per ogni repertorio, io invece ho imparato a suonare la musica antica in un modo ibrido, coniugando al mio violinismo, che è per così dire più moderno, le conquiste della prassi storicamen­te informata, perché credo che da quel mondo siano arrivate delle novità in termini di agilità, di fraseggio, di tempi, che aiutano molto la fluidità dell’esecuzione. Il mio stile è più vicino alla contempora­neità ma sempre nella consapevol­ezza di quello che faccio. Ho provato a saltare da uno stile all’altro in base al brano ma non funzionava come speravo”.

Usa sempre lo stesso violino?

“Sì, anche per ragioni di praticità. C’è chi si porta dietro più strumenti ma per me sarebbe molto complicato”.

Il successo è arrivato quando era molto giovane. Sente di esser cambiata da allora?

“Nella consapevol­ezza. Mi fido di più di me stessa e mi concedo di seguire l’istinto. In passato avevo una mentalità più scolastica e cercavo di compiacere gli altri, di fare la cosa giusta anche a costo di reprimere la mia sensibilit­à. Avevo un approccio più analitico e razionale. Da giovani si è anche più tentati di impression­are i colleghi e si presta molta attenzione al lavoro altrui. Oggi penso di essere la stessa musicista di allora, nel senso che le basi e la sensibilit­à non sono cambiate, ma mi sento più libera di esprimere il mio sentire. Credo sia una transizion­e naturale nel passaggio dall’essere studente al profession­ismo, aspetti che nella mia storia si sono talvolta sovrappost­i”.

In questo ha influito qualche collaboraz­ione?

“All’inizio sì. Da giovane ho avuto due mentori fondamenta­li: David Zinman, che mi ha guidato soprattutt­o dietro le quinte, e Lorin Maazel, che mi ha fatto conoscere il repertorio in profondità. A un certo punto però un musicista diventa se stesso e capisce che i maestri non devono essere vincolanti, anche perché subentra il rischio di sacrificar­e se stessi nel tentativo di diventare quello che loro si aspettano. Credo che il rapporto tra musicisti debba essere paritario, è un continuo dare e avere reciproco”.

Con che tipo di direttore le piace suonare?

“Io amo lavorare coi direttori che hanno un’idea musicale forte, non mi piace essere il tipo di solista che si appoggia su un’orchestra come fosse una base registrata, voglio che ci sia un dialogo, un progetto comune. Mikko è un direttore di questo tipo: propone sfide musicali, stimola ad alzare sempre il livello”.

Che caratteris­tiche si devono avere per fare il solista?

“Non è solo questione di accettare stili di vita eccentrici, trascorren­do gran parte del tempo da soli. Questo è un problema risolvibil­e. Indispensa­bile è la capacità di connetters­i con altri musicisti mantenendo la propria individual­ità. Inoltre bisogna essere in grado di capire al volo come lavorano quelli con cui si collabora e cosa vogliono ottenere, perché il tempo è poco e non va sprecato. È una sorta di duplicità del carattere che deve coniugare una grande estroversi­one alla capacità di osservazio­ne e analisi. E poi bisogna avere fiducia in ciò che si ha da dire”.

Quanto è cambiata la sua vita nell’ultimo anno?

“In realtà ero nel mezzo di un anno sabbatico. Non avevo eventi in programma, ho suonato l’ultimo concerto covid-free nell’agosto del 2019 e poi più nulla fino a pochi mesi fa. Fatto sta che ora il mio anno sabbatico è inesorabil­mente prolungato. Però la pausa si sta facendo lunga, il che porta a ripensarsi, c’è la necessità di trovare altri modi per esprimersi e fare la differenza, su piccola o grande scala che sia. Le possibilit­à dello streaming da questo punto di vista sono impression­anti, anche per la qualità tecnica delle riprese”.

A cosa pensa?

“Sto cercando di organizzar­e dei progetti che nascano da una visione più ampia, di ripensare le mie priorità e dare importanza a ciò che mi interessa davvero. Mi chiedo anche a cosa sia utile dedicarmi in modo che quando ci sarà finalmente l’opportunit­à di tornare a suonare dal vivo ci siano già le basi per ripartire subito. In questo momento sono affascinat­a dai progetti in residenza, anche virtuale, con un conservato­rio o una comunità, perché mi permettono di prendere una pausa dal continuo viaggiare per organizzar­e un lavoro che vada oltre la singola serata e di sviluppare rapporti umani più strutturat­i”. 턢

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